“Noi vogliamo che i processi arrivino a sentenza, non siamo quelli dei legittimi impedimenti, quelli che puntano alla prescrizione: siamo diversi”. Matteo Renzi ci tiene a ribadirlo, e nel corso della direzione nazionale del Pd a Roma, dove lo scontro col governatore pugliese Emiliano ha calamitato le attenzioni, il segretario si dice pronto ad essere sentito dai magistrati di Potenza che indagano sul petrolio in Basilicata. Prendiamo nota. Ma allora perché questa fame di una giustizia dai tempi brevi e certi non è riuscita a sbloccare il ddl sulla riforma del processo penale, fermo da più di un anno in commissione al Senato? Il ddl prevede di fatto un allungamento dei termini di estinzione del reato, che si interrompono per due anni dopo una condanna di primo grado e per un anno dopo una condanna in appello. Non certo una rivoluzione, ma certamente un passo avanti per evitare che migliaia di processi finiscano al macero. Eppure la riforma annunciata come una priorità del governo già nel 2014 non esce dalla commissione. Perché? Di chi è la responsabilità? Lo abbiamo chiesto al ministro della Giustizia Andrea Orlando e al sottosegretario Gennaro Migliore. Ma che fatica. “La commissione giustizia è stata bloccata per molto tempo sulle unioni civili”, chiosa Orlando, che in altri momenti aveva puntato il dito contro i centristi di Ncd. Oggi invece non va oltre il generico “bisognerebbe vedere chi la blocca in commissione”. Fa peggio Migliore, che prima se la prende con “i tempi parlamentari“, strizzando l’occhio alla riforma costituzionale tanto attesa da Renzi. Poi, incalzato, se la cava così: “Ncd? Hanno alcune posizioni che tendono a rallentare”
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