«Papà sono gay», queste la parole con cui un ragazzo di vent’anni ha voluto rivelarsi, in una sera di primavera. Le parole di quello che, tecnicamente, è un coming out. E invece di essere accolto, come dovrebbe essere naturale per un genitore – sempre che si sia degni di questo appellativo – il giovane riceve percosse e aggressioni verbali. Accade a Genova, è il primo di aprile. Proprio qualche giorno fa. E, purtroppo, non è uno scherzo, ma una crudele realtà. La stessa che ancora oggi, nell’Italia dei Family day e delle unioni civili fatte per scongiurare il matrimonio egualitario, è il destino di molti/e adolescenti e di persone più adulte, all’interno della famiglia italiana.

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Il giorno dopo, a Los Angeles, la tragedia invece si compie davvero. Shehada Khalil Issa, un uomo di sessantanove anni, ha ucciso suo figlio Amir, di ventinove, perché omosessuale. Un fatto per altro ampiamente annunciato. Più volte, in passato, l’uomo aveva infatti palesato l’intenzione di assassinare il ragazzo, a causa del suo orientamento sessuale. Ennesima storia di violenza quotidiana, negli Usa come in Europa. Laddove, per questioni legate a fatti culturali, convinzioni politiche o credo religioso, aver figli con orientamento sessuale fuori norma è vissuto come motivo di vergogna. Fino a quando scorre il sangue.

A ben vedere, i difensori della famiglia – dal politico di turno fino alle gerarchie religiose di più alto rango – si guardano dal dire qualsiasi cosa che possa condannare violenze, abusi e atti estremi di questo tipo. Nessuna dichiarazione che abbia il tenore della frase: “le persone si rispettano anche perché omosessuali e non solo perché essere tali dovrebbe essere indifferente”. Ma come disse quel ragazzo che si suicidò qualche anno fa a Roma, lanciandosi dal balcone di casa, ognuno farà i conti con la propria coscienza.

«Per mantenere mio figlio, ho fatto sacrifici immensi. Non posso accettare una cosa del genere» ha motivato il padre genovese. Come se esser genitori significasse poter disporre della vita dell’altro, a proprio uso e consumo. Come se per essere se stessi si dovesse chiedere il permesso. E in questa frase ritrovo le parole di chi descrive l’essere gay come perversione, peccato, malattia. Non si può accettare qualcosa che piomba nelle nostre vite come una sciagura. Ma si dovrebbe essere sereni rispetto a una variante dell’io, come l’esser mancini, nascere con i capelli rossi o essere un po’ più alti o più bassi della norma. E anche qui, chi veicola certi messaggi, dovrà assumersi la responsabilità “culturale” di quelle violenze e di quelle morti.

Di fronte a tali enormità, penso a chi nei mesi scorsi si è scagliato contro il desiderio di genitorialità di gay e lesbiche, definendolo come atto di sfruttamento, di violenza, di abuso sul corpo di soggetti terzi (le donne) e sul destino degli innocenti (i bambini). Eppure, a ben vedere, è proprio in quegli atti di tipo omofobico – e cioè della stessa natura che poi porta a gesti ben più gravi delle semplici dichiarazioni – che si è consumato un eccesso contro corpi, scelte, destini e vite stesse. In psicoanalisi qualcuno parlerebbe di rispecchiamento. È un processo inconscio: si possiede, nel profondo, un certo tipo di violenza e non si riesce ad accettarla. Per tale ragione la si proietta fuori da sé. Gli omofobi, quando parlano dei presunti abusi di cui sarebbe capace la gay community, a ben vedere parlano di loro stessi. Del mostro che hanno dentro e che è necessario proiettare altrove. Proprio per non dover fare i conti con quel lato oscuro a cui dovrebbero rispondere. E con la propria coscienza, appunto.

In un mondo al contrario si parlerebbe di “violenze eterosessuali”. A voler esser gretti come certa stampa che etichetta con “ambiente gay” la scena in cui si consuma un delitto in cui è coinvolto un omosessuale, per intenderci. Quelle famiglie in cui si sono consumati certi fatti, tragici e abietti, sarebbero definite da qualcun altro come “naturali”. Mentre “contro natura” sarebbero bollati il ragazzo genovese e la vittima di Los Angeles. Non so a quale natura si riferiscono i salvatori delle famiglie ritenute le uniche possibili. Ma se per esistere e sopravvivere tali realtà devono basarsi sulla negazione dei diritti, sull’insulto e sugli abusi a danno della comunità Lgbt, la cosiddetta famiglia “tradizionale” non ha bisogno di difensori, ma di qualcuno che la salvi dalla sua naturale e intrinseca violenza.

 

 

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