“In Italia si cerca di scoraggiare le nuove iniziative per difendere lo status quo. Ho creato più partnership a Lisbona in tre mesi che in due anni nel mio Paese. E non perché siano più ricchi, ma perché comprendono che l’unione fa la forza, mentre noi italiani troppo spesso preferiamo andare avanti da soli”. La barca di Sergio Frattaruolo, bolognese di 46 anni, è dipinta con un tricolore di otto metri. Leone, il suo bimbo di pochi mesi, è a 2.300 chilometri di distanza. Eppure chi l’ha appoggiato di più nel suo progetto è stata proprio sua moglie. Perché a La Spezia, Sergionon riusciva ad avviare la sua scuola per “navigatori oceanici”.

“In Italia la vela fa fatica a essere concepita come un lavoro e viene vista solo come un divertimento per ricchi”, racconta. Così a luglio 2015 lo skipper ha fatto le valigie e si è trasferito a Lisbona, dove organizza regate per “iniziare” le persone all’oceano. “Parte del lavoro è organizzativo, quindi riesco a stare un mese in Portogallo e un mese in Italia. Ne abbiamo parlato a lungo con mia moglie, e siamo d’accordo che è più importante la qualità del tempo che si passa insieme rispetto alla quantità. Entrambi dobbiamo percorrere strade parallele per realizzarci”. Perché per Sergio, oltre che essere un lavoro, l’oceano è una necessità.“Credo che uno dei primi doveri di un genitore sia insegnare ai figli a inseguire la felicità. Non vorrei mai dire a Leone che per lui mi sono sacrificato e ho rinunciato a tutto”.

“Credo che uno dei primi doveri di un genitore sia insegnare ai figli a inseguire la felicità”

La storia d’amore con le barche è iniziata a 19 anni. La miccia che gli ha fatto scegliere di lasciare “carriera e aperitivi” si è accesa tra reparti per malati terminali. “Mia madre è morta dieci anni fa di tumore. In quel periodo lavoravo in un ufficio senza finestre. Avevo una posizione ben avvitata nell’informatica, ma mentre accompagnavo mia mamma in ospedale, ho realizzato quanto per me soldi e carriera non fossero importanti”. Torna allora alla mente del bolognese una promessa che si era fatto a 22 anni, mentre dormiva per la prima volta su una barca a vela in mezzo al mare. “A motore spento, mentre la barca era mossa dalla forza del vento, avevo giurato a me stesso che un giorno il mare sarebbe diventato il mio posto di lavoro”. Così Sergio, che ha iniziato a lavorare a 15 anni e non ha potuto studiare (“il mio più grande rimorso”), a quarant’anni decide di mantenere la promessa che si era fatto vent’anni prima.

I tasselli si incastrano velocemente. Nel 2009 firma il leasing per una barca di 6,5 metri. Smette di fumare le 70 sigarette quotidiane. Vende l’auto e compra il furgone usato che per i due anni successivi sarà la sua casa. Si trasferisce vicino Montpellier, dove frequenta per due anni un centro di addestramento per navigatori solitari. “Volevo creare una scuola per navigatori oceanici, ovvero preparare tecnicamente persone ‘normali’ con il sogno di attraversare l’oceano”. Era il 2013, l’anno in cui nasce Extreme Sail Academy (qui). La prima base è La Spezia. Tanti i clienti, ma anche le complicazioni date da “norme spesso in contrasto tra loro. Nel mio settore, infatti, molte leggi sono obsolete o derivano dalla marina mercantile” con il risultato di “subordinare una piccola barca agli stessi regolamenti di una grossa nave”. Altro incubo è il nepotismo: “Non si muove niente se non sei amico dell’amico”. La spinta decisiva a lasciare il Belpaese nella primavera del 2015, quando insieme a degli allievi Sergio naviga nell’oceano per 21 giorni stabilendo il record mondiale sulla Discovery Route (le 4.600 miglia di rotta rotta che fece Cristoforo Colombo per andare nel nuovo mondo). Al rientro, a luglio dello scorso anno, il 46enne decide di fermarsi in Portogallo per proporre corsi e regate con partenza da Lisbona. Il paradosso di avere lasciato l’Italia? Al momento il 70% dei suoi clienti sono proprio italiani.

“In Italia non si muove niente se non sei amico dell’amico. E la vela viene solo concepita come un divertimento per ricchi”

Quando è a Lisbona, la vita del lupo di mare dalla barba leggermente imbiancata si divide tra corsi, allenamenti in acqua e giornate di navigazione (periodi in cui il bolognese dorme – vestito – micro-sonni di 20 minuti ogni due ore). “Guardando al futuro penso che la nostra vita non sarà in Italia”. E non è certo il denaro a tenerlo lontano dalla sua patria, anzi. “Se avessi voluto una vita tranquilla sarei rimasto nell’informatica dove i guadagni erano molto più alti”. Il problema è che in Italia “le nuove idee vengono percepite come pericolo invece che come opportunità di business”. Cosa resta del suo Paese? A sentire i suoi racconti, una terra di cui Sergio è innamorato ma con dei limiti che lo portano a starne lontano. “L’immobilismo che ho visto in Italia è difficile da trovare altrove, anche in paesi molto più poveri. L’Italia non offre opportunità – chiude lo skipper – E non è solo una questione di tasse o crisi. Forse nei decenni le cose cambieranno, ma ora non riesco a vedere segnali di miglioramento”.

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