La foto del passaporto di Giulio Regeni su un piatto d’argento è stata una doccia gelata. E’ la prova postata nelle ore scorse sulla bacheca Facebook del ministero dell’Interno egiziano del collegamento tra la morte del ricercatore e un gruppo di cinque criminali comuni morti in un conflitto a fuoco il 24 marzo. Questa volta la versione sicuramente comoda per il governo di Al Sisi arriva con una carta pesante, probabilmente quella definitiva. La tesi della criminalità comune – che rispuntava ciclicamente nei media vicini al regime – è la “verità” servita all’Italia.

Alle 23 di ieri, mentre in tutta Europa si parlava degli attentati a Bruxelles, il ministero dell’interno del Cairo ha postato tre foto che ritraggono il passaporto, la carta di credito e i badge del ricercatore italiano rapito il 25 gennaio scorso, a lungo torturato e poi ucciso da mani sicuramente esperte. Gli oggetti sarebbero stati ritrovati – spiegano gli investigatori egiziani in un lungo comunicato in arabo – in una borsa rossa con la bandiera dell’Italia all’interno dell’abitazione dei Mabrouka Ahmed Afifi, 48 anni, sorella di Rasha Saad Abdel Fatah, 34 anni, uno dei quattro banditi uccisi dalle forze di sicurezza del Cairo in un conflitto a fuoco.

Gli investigatori sarebbero arrivati all’abitazione della donna “perché le indagini hanno dimostrato che lui andava da lei di tanto in tanto”, si legge nel comunicato diffuso la notte scorsa. Oltre ai documenti sarebbero stati ritrovati due cellulari, “un portafogli femminile con la parola ‘love’ nel quale si trovano 5 mila sterline egiziane, un pezzetto di materiale scuro che potrebbero essere 15 grammi di hashish, un orologio”.

Oltre alle tracce di soldi ottenuti da altre rapine o sequestri: “il furto di 3.000 dollari e 600 Sterline egiziane a Rashid G., un nigeriano, come anche 5.000 euro e 2.000 sterline egiziane e di pezzi d’oro a Carlos M., portoghese, il furto di 10 mila dollari a David K., italiano, quello di 20 mila sterline e 480 dollari a Hisham F., 20 mila dollari a Mahmoud M., il furto di 3 apparecchi portatili a Emad E.”.

Caso chiuso, dunque, per gli investigatori egiziani. E alla fine del comunicato il ministero dell’Interno ringrazia anche le autorità italiane: “Gli apparati di sicurezza hanno concluso le indagini e informato la parte italiana dei risultati. Il ministero ringrazia la parte italiana per la sua piena cooperazione nella fase precedente che ha contribuito ad ottenere a questo risultato”. Una frase che suona beffarda, una sorta di sfida lanciata al governo Renzi, al ministro Gentiloni, al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, al Ros dei carabinieri e allo Sco della Polizia di stato. Nessun mistero, nessuna tortura da parte di organismi di sicurezza egiziani, solo un manipolo di banditi che si travestiva da poliziotti per rapinare turisti stranieri è dunque la tesi servita simbolicamente sul piatto d’argento, fotografato con i documenti di Giulio.

Meno di dieci giorni fa il presidente Al Sisi, in una intervista a La Repubblica, aveva promesso alla famiglia di Regeni il massimo sforzo per risolvere il caso: “Vi prometto che faremo luce e arriveremo alla verità, che lavoreremo con le autorità italiane per dare giustizia e punire i criminali che hanno ucciso vostro figlio”. Aggiungendo, poi, di ritenere il premier Matteo Renzi “un vero amico mio e dell’Egitto”; una amicizia che però si basa su una sorta di fedeltà ai patti rievocata dal presidente egiziano tra le righe: “Abbiamo un ottimo rapporto e lui è persona di principi che non dimentica gli impegni e i legami che abbiamo”. Renzi aveva risposto subito dopo ringraziando al-Sisi: “Parole molto importanti che confermano quello che lui chiama il rapporto speciale tra Italia ed Egitto. Questa intervista in cui tra l’altro il presidente si rivolge direttamente alla famiglia Regeni mostra che ci sono evidenti e significativi passi in avanti. Ora tutti insieme troviamo i colpevoli”.

Poco prima era volato al Cairo il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone per un incontro di vertice con il procuratore generale dell’Egitto Nabil Ahmed Sadek, avvenuto il 14 marzo scorso. Da quel momento tutto, apparentemente, sembrava iniziare a funzionare. Già il giorno dopo diverse fonti assicuravano che la svolta sarebbe venuta presto, “entro due settimane”.

Al momento gli investigatori italiani non avrebbero ancora ricevuto formalmente un report sull’operazione e sugli oggetti di Giulio Regeni ritrovati nella casa della sorella del capo banda ucciso ieri. Ma gli elementi che non tornano sono tanti, decisamente troppi. Non avrebbe alcun senso per dei criminali comuni sottoporre a torture crudeli una vittima, dopo avergli sottratto cellulari e portafogli.

Supponendo poi che l’elenco dei sequestri e rapine attribuite ai quattro dal ministero dell’interno egiziano sia vero, è evidente che il gruppo doveva essere ben conosciuto agli investigatori: perché le indagini non hanno puntato subito su di loro? E ancora, per quale motivo hanno tenuto quella borsa, assumendosi un rischio altissimo di essere individuati? Tutta l’operazione poi puzza di messa in scena: nessuno potrà parlare, visto che i presunti colpevoli sono stati tutti uccisi.

Ora tocca alle nostre autorità e alla Procura di Roma porre una minima parola di verità su questa vicenda. Al momento l’unica reazione è arrivata dall’opposizione e dall’ex premier Enrico Letta: “Mi spiace, io non ci credo. Non fermarsi a chiedere la verità per Giulio Regeni”, ha scritto poco fa su twitter.

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