Nella settimana di passione di Bruxelles la paura ha “convinto” le famiglie belghe a non portare i bambini a scuola. All’indomani delle stragi all’aeroporto e nella metro, un alunno su tre non si è presentato in classe. Lo ha riferito il ministro dell’Istruzione della Fédération Wallonie-Bruxelles, Joelle Milquet, spiegando che nei vari istituti si è registrato un tasso di assenze che va dall’8 al 45 per cento.

E’ il terrore a vincere in questi primi giorni dopo gli attentanti. Uno sgomento contagioso che non ha più “casa” e che interroga non solo mamme e papà del Belgio ma dell’intera Europa. Genitori, educatori, insegnanti da mesi si pongono nuovi interrogativi: come si spiega a un bambino di due-quattro anni una strage? Quali sono le risposte da dare a un ragazzo che vede alla televisione tutto quel sangue, tutta quella disperazione? Bisogna rassicurare o solo spiegare? La televisione va tenuta accesa o spenta?

In Belgio ad affrontare la questione, all’indomani della tragedia, è stato il ministro dell’istruzione del governo fiammingo che ha diffuso una circolare tra le famiglie per annunciare nuove misure di sicurezza e vigilanza negli istituti, fornendo una serie di indicazioni pratiche ma dando anche consigli su come affrontare le domande dei bambini e degli adolescenti. Il ministro Hilde Crevits, ha chiesto di rispettare alcune precauzioni: tenere i bambini all’interno delle aule, rinviare le attività extra-curriculari, limitare il numero di persone che hanno in dotazione le chiavi della scuola, segnalare la presenza di eventuali estranei sospetti, limitare l’accesso dei genitori. Una scuola che somiglia sempre più a una prigione ma che prova a garantire la sicurezza. Il messaggio, dall’altro canto, è quello di non aver paura.

A dare sostegno ai genitori e agli insegnanti è arrivato nelle scuole anche un vademecum tratto dalla brochure “I bambini e la guerra nei social media” nel quale si consiglia di “non ignorare le domande dei figli” ma allo stesso tempo di “non dare più informazioni del necessario”. Ciò che conta sembra essere l’età. Fino ai 2 anni il suggerimento è quello di “assicurarsi che non vedano nulla”.
Dai 2 ai 4 anni si consiglia di “limitare al minimo l’accesso alle immagini televisive”. Successivamente con i bambini dai 6 ai 10 anni è meglio “cercare di controllare le loro idee, le loro sensazioni rassicurandoli che questi attacchi non accadranno più”.

Diverso il ragionamento da fare con gli adolescenti: “A dieci anni i bambini capiscono molto, fanno domande e vogliono sapere. Questi bambini hanno un grande bisogno di informazioni”. Consigli che sono arrivati anche dalla Fédération Wallonie-Bruxelles. Milquet ha immediatamente dedicato una sezione apposita del sito del ministero all’emergenza fornendo una serie di supporti agli insegnanti per rispondere al quesito: come affrontare il tema degli attacchi in classe?

La filosofia suggerita è una: “Per il bambino, la preoccupazione deriva principalmente dall’angoscia vissuta dai suoi parenti: dai genitori o dagli insegnanti. Tra gli adulti per alleviare la tensione e sentire la solidarietà può essere utile estendere la pausa caffè, avere del tempo da trascorrere insieme; è necessario rimanere concentrati sul bambino. Il suo ritmo, la sua comprensione degli eventi non sono quelle degli adulti. Bisogna stare ad ascoltare, senza superare l’essenziale”.

A conoscere bene la materia in Italia, sono i professionisti della Società della psicologia dell’emergenza che sono intervenuti in occasione dei terremoti e di altri eventi catastrofici. Enrica Pedrelli, presidente della sezione dell’Emilia Romagna, ha visto i volti dei bambini dopo il sisma del 2012 e ha le idee chiare in merito: “Dare dei consigli ai genitori è essenziale; per affrontare questi momenti serve uno schema semplice, un decalogo. I bambini piccoli, sotto i 6 anni, sono influenzabili, più dai genitori che dalla televisione. E’ chiaro che vanno protetti: un conto è quando uno si trova sul luogo della strage, in strada o in metro tra la folla ma se è in casa propria, che è per definizione un luogo protetto, il genitore ha la responsabilità di schermare, di fare da scudo. Quanto scritto dal ministero dell’istruzione del Belgio è corretto: si tratta di un evento eccezionale che colpisce in modo raro rispetto a tante altre morti (per malattia, incidenti stradali). La rassicurazione deve andare in questa direzione. Importante è ascoltare la richiesta del bambino: la parola va detta quando c’è un minimo di dialogo. Non è detto che quel fatto attiri la curiosità dei bambini, non va detto di più di quanto vogliono sapere”.

Diversa la questione per quelli più grandi, oltre i 10 anni: “Bisogna parlarne nella misura in cui c’è curiosità. E’ la scuola – spiega Pedrelli – che ha il compito di approfondire”. La presidente della sezione dell’ della società di psicologia dell’emergenza non condivide invece le indicazioni date dal ministero fiammingo in merito alle precauzioni da adottare: “Tenere i bambini all’interno della scuola significa essere vittima del clima che il terrorismo vuole imporre. In emergenza va data importanza alla fase di normalizzazione ovvero tutto ciò che serve per restare nella routine pur nella consapevolezza di andare oltre un momento terribile per il Paese. La criticità va riconosciuta ma bisogna andare avanti e ripristinare le attività di sempre”.

Particolarmente attento all’emergenza dopo gli attacchi di Parigi era stato il ministero dell’istruzione francese che aveva diffuso una serie di materiali in modo particolare aveva dato notizia del grande lavoro fatto dall’editoria dedicata ai bambini. La rivista per l’infanzia “Astrapi” aveva dedicato un dossier speciale di due pagine per spiegare ai bambini quanto era successo. Anche il quotidiano “Libération” aveva realizzato un’edizione speciale pensata per i bambini dai 7 ai 12 anni, per rispondere alle domande dei giovani lettori e i tre quotidiani per bambini e ragazzi del gruppo “Play Bac”, avevano pubblicato delle edizioni straordinarie.

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