E di che vi stupite? Perché meravigliarsi se, nell’epoca post-1989 dell’ordine globale monopolare, domina sempre e solo un punto di vista? Per quale ragione dovrebbe destare stupore il fatto che oggi, come mai prima, si impone un’unica prospettiva, che si presenta come post- e anti-ideologica e che, in verità, è segretamente la più ideologica dell’intera storia umana?

Ecco, dunque, che, nel tempo della sincronizzazione planetaria delle coscienze, la fine di Cuba è celebrata a reti unificate come se fosse la vittoria cosmica della democrazia; come se fosse l’eroico trionfo della libertà sulla dittatura; come se si trattasse della gloriosa fine del male sulla terra.

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L’ideologia regna sovrana, proprio quando si presenta come una visione naturale, neutra, imparziale. In coerenza con la destoricizzazione tipica del nostro presente, la dimensione storica viene sostituita, a livello di prestazione simbolica, ora dallo scontro religioso tra il Bene e il Male, identificati rispettivamente con l’Occidente a morfologia capitalistica e con le aree del pianeta che ancora resistono; ora dal canovaccio della commedia che, sempre uguale, viene impiegato per dare conto di quanto accade sullo scacchiere geopolitico: il popolo compattamente unito contro il dittatore sanguinario, il silenzio colpevole dell’Occidente, i dissidenti “buoni”, cui è riservato il diritto di parola, e, dulcis in fundo, l’intervento armato delle forze occidentali che donano la libertà al popolo e abbattono il dittatore mostrando con orgoglio al mondo intero il suo cadavere (Saddam Hussein nel 2006, Gheddafi nel 2011, ecc.).

E ora è giunto il turno di Cuba, che ha eroicamente resistito fino ad oggi, ponendosi come Stato non allineato, come “Stato canaglia” secondo il lessico dell’impero. La fabbrica dei consensi ha lavorato bene: ci ha presentato per anni Cuba come se fosse popolata solo da dissidenti che, alla stregua della nota blogger cubana magnificata dalle reti occidentali un giorno sì e l’altro pure, stavano in casa a scrivere sui blog contro Fidel. Come se a Cuba vi fossero sempre e solo nemici del regime, in attesa della dolce libertà occidentale. È quella che chiamo l’unificazione mediatica del popolo, funzionale alla legittimazione dell’abbattimento dei governi. Secondo questa commedia che ha sostituito, nella spiegazione degli eventi, la comprensione storica all’insegna del nobile principio spinoziano del non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere, tutti i mali della società vengono imputati al feroce dittatore di turno (sempre identificato dal circo mediatico con il nuovo Hitler: da Saddam a Gheddafi, da Ahmadinejad a Chávez, fino a Fidel), che ancora non si è piegato alle sacre leggi di Monsieur le Capital; e, con movimento simmetrico, il popolo viene mediaticamente unificato come una sola forza che lotta per la propria libertà, ossia per la propria integrazione nel sistema mercatistico.

In questo modo, l’aggressione imperialistica della monarchia a stelle e strisce può trionfalmente essere salutata come forma di interventismo umanitario, come gloriosa liberazione degli oppressi, essi stessi presentati come animati da un’unica passione politica: l’ingresso nel regime della produzione capitalistica e la sottomissione incondizionata alla monarchia universale. Con Cuba, si è trattato di una aggressione “morbida”, lenta e pervicace. Che ora è giunta a compimento. E mentre tutti la celebrano come “fine della dittatura” e “conquista della libertà”, mi sia consentito procedere obstinate contra: si tratta di una tragedia geopolitica. Pur con tutti i suoi limiti, Cuba si è posta nel Novecento come uno Stato resistente e non allineato; ha provato a percorrere una via alternativa rispetto al modello – oggi divenuto paradigma unico – dell’economia di mercato. E se confrontiamo Cuba con le altre realtà dell’area sudamericana, non si può certo dire che sia stato un modello disastroso, pur con tutti i suoi limiti: ha garantito diritti sociali stabili e ben superiori a quelli mediamente presenti nelle realtà capitalistiche; ha garantito ai suoi cittadini un sistema sanitario di primo livello; ha sostenuto i popoli oppressi e in rivolta. Insomma, in rivendicata antitesi con la grande narrazione ideologica del pensiero unico: la fine di Cuba è una tragedia, non un successo. Ed è una tragedia anche per noi in Europa, perché segna la fine di un altro Stato resistente e non allineato, ossia di uno di quegli Stati che ci permettevano di mantenere aperta la pensabilità di qualcosa di diverso rispetto al monoteismo del mercato e al classismo planetario pudicamente chiamato capitalismo.

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