Le banche? Sono un affare di Stato, anzi di governo. Era dai tempi del famigerato “abbiamo una banca?” che non si assisteva a un intervento così diretto della politica sui processi di aggregazione in corso. A rilanciare le nozze tra Banco Popolare e Bpm – operazione che sembrava destinata a saltare in seguito alle stringenti richieste della Bce su governance, requisiti patrimoniali e piano industriale – sono stati il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il premier Matteo Renzi che venerdì sera si sono apertamente schierati per la fusione che darà vita a una “banca più grande e più forte – come ha sottolineato lo stesso Padoan -, in grado  di affrontare il mercato nel quadro delle nuove norme europee di settore e quindi capace di erogare più risorse alle imprese in una stagione in cui il finanziamento degli investimenti è cruciale per il rilancio dell’economia”.

L’uscita pubblica di premier e ministro è stata fatta al termine di una giornata molto difficile in Borsa, dove il titolo del Banco Popolare aveva chiuso in calo del 14% e quello di Bpm del 5,5%. Scavalcando i consigli d’amministrazione delle due banche, che ancora non si sono riuniti per discutere delle richieste della Bce, il governo ha di fatto dettato la linea su un’operazione che riguarda due istituti di diritto privato e i loro azionisti, tra i quali – a differenza di Mps – non figura il ministero del Tesoro. E’ un’indebita ingerenza che ha peraltro contribuito ad alterare l’andamento dei due titoli che lunedì hanno terminato la seduta in forte rialzo (+5,92% il Banco, +3,37% Bpm) in attesa dei consigli dei due istituti che si riuniranno tra martedì 22 e mercoledì 23 marzo per discutere dell’operazione e, soprattutto, dei paletti posti dalla Bce. In particolare la popolare veronese sta valutando le varie opzioni per il rafforzamento patrimoniale. Tra i nodi più delicati vi è la questione della gestione delle sofferenze (6,4 miliardi sono in capo al Banco Popolare contro il miliardo e mezzo di Bpm) e la richiesta di rafforzamento patrimoniale che potrebbe rendere inevitabile un aumento di capitale, specie se Banco e Bpm non cederanno asset ritenuti strategici come Aletti Gestielle, la partecipazione in Anima e quella in Agos Ducato. Fino a venerdì le due banche avevano ribadito che nel caso in cui si fosse reso necessario un aumento di capitale la fusione non si sarebbe fatta. Ora occorrerà vedere se questo paletto resta ancora valido e quali eventuali alternative verranno messe sul piatto per poter andare avanti rispettando i requisiti richiesti da Francoforte.

L’altra questione è quella della governance e delle poltrone. La Bce ha chiesto uno statuto “chiaro ed efficiente”, precisando che non concederà più di una licenza bancaria alla nuova entità. E questo è un problema non da poco, soprattutto per Bpm che chiedeva invece di poter continuare ad operare post-aggregazione per almeno tre anni per non uscire troppo ridimensionata dalla fusione. Gli equilibri interni di potere rischiano così di pesare sull’intera operazione e di spingere in direzione di soluzioni alternative meno penalizzanti. Difficile in ogni caso che martedì 22 i consigli dei due istituti prendano delle decisioni definitive in merito all’operazione di aggregazione sulla quale, comunque, l’ultima parola spetta alla Bce.

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