Muri, serrande, lastre, pietre, assi di legno, e sopra i dipinti di Blu, Banksy, Ericailcane, Invader, Dran, Os Gemeos, Obey, Ron English. Tutti graffiti asportati dalle strade cittadine dove si trovavano e appesi tra le pareti di Palazzo Pepoli a Bologna. Apre i battenti il 18 marzo 2016, per chiudere il 26 giugno, la mostra Street art – Banksy &Co., senza che le polemiche che l’hanno preceduta, e lanciata forse ogni aspettativa, si siano sopite. Blu, che con ben 18 sue “opere” è finito suo malgrado dentro al Museo della storia di Bologna, nel corpo centrale però, bello grande ed ampio che di solito ospita scale, divanetti, indicazioni generali o pareti vuote, è chiaramente l’anima di questa esposizione.

300 i pezzi in mostra, molti prestati dal Museo della Città di New York e dal MuCem di Marsiglia che hanno collaborato attivamente all’insieme della realizzazione, ma che senza l’architrave concettuale e provocatoria dell’artista marchigiano rischiano di diventare un elenco di esperienze possibili ma difficilmente catalogabili alla classica maniera museale. “Non c’è un percorso lineare”, spiega uno dei curatori Christian Omodeo durante la conferenza stampa di presentazione di Street art – Banksy &Co. “Volevamo inserire tutte le anime della street art o urban art. Dalla ‘tag’ come ricerca segnica e calligrafica ai writing. Il focus è più sui temi che costruito su un percorso storico”.

Ecco allora che l’immenso graffito di Blu, “senza titolo”, datato 2006, alto almeno una decina di metri, 150 chilogrammi di peso, muro in cemento armato asportato dalle Ex Officine Casaralta (chiuse da decenni perché zeppe di amianto), con un disegno tripartito su sfondo bianco e contorni neri, fa da simbolo teorico e pratico all’intera operazione espositiva. Il blocco è stato asportato da un team di 6 persone che hanno lavorato 4 mesi coordinate dalla vera anima operativa di Street Art – Banksy &Co., Camillo Tarozzi. “E’ una tecnica conservativa vecchia di secoli con cui da duecento anni si staccano letteralmente molti affreschi – spiega – di solito si deve prendere anche l’intonaco su cui il colore si appoggia, ma in questo caso l’intonaco non era stato preparato. Insomma Blu non faceva come Giotto”.

Sempre come primo impatto, proprio appena la mostra inizia, c’è un’altra stanza in cui appare il Test Loop 1 (2006) sempre di Blu, cinque pannelli con figure umane senza testa sempre asportate delle Ex Officine Casaralta. E ancora in alto proprio sopra l’entrata del Museo della Città un altro graffito dell’artista marchigiano proveniente da un edificio in demolizione di Via della Liberazione a Bologna con sfondo mattoni e due figure (un’animale che esce da uno schermo tv e un umano chino su un monitor di pc), ma anche una serranda pitturata da Blu e conservata da un collezionista privato che l’ha messa a disposizione. “Quando un’opera è stata fatta dentro o su una proprietà altrui l’artista di strada esprime sì il suo antagonismo ma sa perfettamente che quello spazio non è suo ma di proprietà di chi lo possiede”, sottolinea Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bononiae Museo della Città, e deus ex machina dell’intera operazione street art. “Qui nessuno ci ha guadagnato una lira. Le opere sono in mostra e una volta finita l’esposizione finiranno in un capannone con ottime condizioni di temperatura e umidità. Uno spazio di proprietà di un’associazione senza fini di lucro che ha sorretto questa operazione con soldi suoi, in attesa che magari le opere finiscano ad un ente pubblico per renderle disponibili alla visione in altre forme. Non accetto critiche di nessuno tipo: le opere erano private e su edifici che stavano per essere demoliti. Di fondo le abbiamo salvate”.

Le parole di Roversi Monaco rinfocolano la polemica che ha visto Blu, assieme ad altri colleghi, molti presenti con alcuni pezzi in mostra, reagire per protesta cancellando con vernice grigia molti suoi graffiti sparsi per la città di Bologna. “Abbiamo agito correttamente”, fa notare sempre il presidente di Genus Bononiae ai giornalisti che gli fanno notare possibili “diritti morali d’autore” che gli artisti defraudati potrebbero richiedere. “I proprietari dei luoghi hanno dato l’assenso, questo basta. Non abbiamo avuto incertezze rilevanti nell’agire. Se vogliono ritirare le “loro” opere, come dire, suoneremo le nostre campane”. Ci sono anche tanti altri pezzi di collezionisti privati in mostra, tra cui alcuni mosaici di Invader, disegni su carta dello stesso Blu, Angela Davis e Vivi la rivoluzione di Obey, stencil e spray su cartone di Banksy. “Blu ha esposto già in gallerie a New York e Londra fino al 2008 – ha concluso uno dei curatori, Luca Ciancabilla – Collaborava con il mondo museale ed era palesemente aperto al mercato. Poi il discorso si è interrotto e oggi c’è un altro Blu”. O almeno c’era: sotto colate di vernice grigia.

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