Rete 29 Aprile chiede le dimissioni del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini.

Siamo consapevoli del fatto che si tratta di un gesto pesante e difficile, ma siamo altresì convinti che le condizioni complessive del sistema scolastico e universitario rendano necessario un ricambio e soprattutto un cambio di passo che solo le dimissioni della professoressa Giannini possono – forse – agevolare. Intendiamoci: che questo governo sia dedito più a diffondere spot che a intervenire in maniera efficace su un corpo universitario martoriato dalla pseudoriforma introdotta da Maria Stella Gelmini nel 2010, è cosa abbastanza evidente; non crediamo quindi che la partenza della professoressa Giannini dal governo cambi d’un colpo la situazione e gli intendimenti del governo che ama i gesti eclatanti e vuoti.

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Ma sarebbe un buon inizio. Guardiamo ai fatti. Nell’ultimo rapporto Ocse sull’istruzione l’Italia viene collocata agli ultimi posti dell’Unione europea e dei Paesi industrializzati in tutti i settori: troppo pochi i laureati in rapporto alla popolazione, troppo pochi i ricercatori, bassi oltre ogni dire gli investimenti pubblici per scuola e università (siamo davanti solo alla Turchia) e pochi trend positivi. Una sola cosa ci vede nella fascia medio-alta delle classifiche: il costo delle tasse universitarie che non sono così basse come si crede in confronto con gli altri Paesi dell’Unione, Regno Unito a parte. Siamo anche campioni nel non distribuire borse di studio agli studenti meritevoli, che poi non diventano assegnatari ma solo portatori sani di merito (siamo o non siamo un paese meritocratico?) e siamo campioni nel non prevedere alloggi per gli studenti che ne hanno bisogno. Le retribuzioni del corpo docente sono ridicole nel campo della scuola pubblica, e ben sotto la media europea per quanto riguarda l’università (quest’ultime retribuzioni sono anche sottoposte a blocco dal 2010, cioè da sei anni).

L’accesso al ruolo universitario è stabile intorno ai 40 anni, portando all’assurdo che si comincia a fare ricerca senza il patema della prossima giubilazione solo quando si è ormai privi della fantasia e dell’inventiva necessarie per farla. Peraltro, Stefania Giannini ha anche mantenuto l’interruzione della procedura abilitativa, che doveva svolgersi ogni anno ed è invece ferma da tre. La valutazione della ricerca italiana, esercizio matematico-simbolico così assurdo da provocare ilarità in tutta la comunità scientifica internazionale, è stata portata avanti da un organismo, l’Anvur, che tende a sostituirsi al ministero, e che si arroga incredibili competenze esclusive e questo nel silenzio del Ministero che Giannini guida, mentre il Cun, organo consultivo per il ministero, viene svuotato di importanza. In compenso il ministro si batte per un’università degli annunci a effetto, come ad esempio le 500 cattedre annunciate con gran clamore per professori eccellenti scelti non si come, ma nel frattempo si precarizza ancora di più il sistema, togliendo i limiti al numero dei ricercatori precari che possono essere assunti e dando un sacco di soldi pubblici a enti di natura privata, come l’IIT, mentre il resto dell’università stenta ad avere i soldi per sopravvivere. Silenzio del ministero su tutto: silenzio che continua anche di fronte al sostanziale fallimento dell’ultima campagna di rilevazione per verificare la qualità della ricerca, la roboante Vqr, con un buon 10% dei docenti italiani che si sono semplicemente rifiutati di sottoporsi a tale divertissement utile solo a qualche statistico con turbe del comportamento.

In mezzo a questo panorama deprimente, sorprende vedere che l’Italia resta un Paese scientificamente attivo, con ricercatori e docenti che in mezzo a mille pastoie e impedimenti cercano comunque di mantenere il Paese nel dialogo scientifico internazionale, e ci riescono. Ma non grazie alla politica e, soprattutto, non grazie ai ministri che sono seguiti alla triste stagione di Maria Stella Gelmini. Né Profumo, né Carrozza né, oggi, Giannini, si sono mostrati intenzionati a ribaltare i tanti indicatori negativi che raccontano il miserevole stato in cui versa l’Università italiana, stato la cui responsabilità è proprio del “manico” che l’ha guidata in mezzo a riforme succedutesi con schizofrenia. Per questo motivo chiediamo che Stefania Giannini torni a fare il professore. Torni a fare quello che faceva prima di diventare ministro per caso, compito che né lei, né gli altri, hanno saputo fare bene. E potrà così verificare di persona lo stato dell’amministrazione che ha guidato con tanto insuccesso e velleitarismo in questi ultimi mesi. Potrà vedere che, dal 2008 in poi, l’università è rimasta vittima, così come la scuola, di un’impostazione politica che la vede non luogo di elaborazione critica del sapere, bensì utile appendice per altre attività economiche e sociali, una specie di parco buoi dal quale devono uscire non cittadini evoluti e preparati, bensì yes-men e yes-women che si commuovono a sentire slogan e promesse. Il fallimento della sua gestione, ministro Giannini, è nelle statistiche e nelle valutazioni che mettono l’Italia in coda a tutto il mondo occidentale per quanto riguarda educazione e ricerca.

Noi le chiediamo un gesto di serietà e di responsabilità: se ne vada; farà danni altrove, ma almeno con minori conseguenze.

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