di Claudia De Martino*

Israele visto dagli Usa: un Paese frammentato tenuto insieme dalla religioneUn sondaggio condotto dal Pew Research Center, noto centro statistico statunitense, ha rivelato che quasi la totalità (98%) degli ebrei israeliani ritiene ancora la libertà di immigrare in Israele un diritto fondamentale degli ebrei di tutto il mondo. La stragrande maggioranza (91%) aggiunge che uno Stato a maggioranza ebraica- è l’unica soluzione per garantire la sopravvivenza del popolo ebraico, in presenza di una ripresa dell’antisemitismo a livello globale. Questo arroccamento sull’identità ebraica comporta anche la tacita approvazione di due orientamenti politici equivoci come l’espansione continua di insediamenti nella Cisgiordania occupata “a fini di sicurezza” (approvata dal 49% degli intervistati) e l’approvazione di un trattamento preferenziale da parte delle istituzioni per i cittadini di fede o appartenenza ebraica (dal 79%).

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Israele si dibatte ancora in una controversia antica, quella tra Paese democratico e Paese che deve forzatamente ancorarsi ad una maggioranza etnica. Se il 76% degli ebrei (76%) sostiene che Israele può essere uno Stato al contempo ebraico e democratico, una maggioranza di arabi (63%) afferma che questo binomio è di per sé impossibile. Gli arabo-israeliani si battono da sempre per una definizione più inclusiva di cittadinanza israeliana e forse oggi più che mani, dato il definitivo tramonto della possibilità di fondare uno Stato palestinese indipendente, che ormai meno del 50% degli intervistati ritiene possibile. Il sondaggio Pew rivela anche tensioni crescenti in seno alla maggioranza e la divisione degli ebrei-israeliani in una costellazione di gruppi sempre più eterogenei. Schematizzando la complessità sociale del Paese, il sondaggio identifica 4 macro gruppi, di cui gli Ḥilonim (laici), i Masortiim (tradizionalisti), i Datiim (religiosi) e gli Ḥaredim (ultra-Ortodossi). Poiché il primo gruppo, quello dei laici, costituisce il 49% della popolazione, la società israeliana sembra dividersi specularmente tra coloro che identificano l’ebraismo con un’appartenenza culturale e nazionale e coloro che – tra tradizionalisti, religiosi e ultraortodossi – ritengono, invece, che la religione debba rimanere il collante organico tra le varie comunità. Una religione vissuta dai tre gruppi con grandi differenze interne, ma che comunque resta valore nazionale fondamentale e fattore distintivo con la grande minoranza araba interna.

La maggior parte della società è costituita da ebrei (81%), mentre la restante parte da musulmani, cristiani e drusi. Questi gruppi sono ermeticamente sigillati e auto-segregati al loro interno. Gli unici rapporti intercomunitari riguardano la sfera economica e commerciale, mentre i rapporti intimi, familiari e d’amicizia restano strettamente endogamici. La scarsa interazione tra maggioranza e minoranza crea così una barriera etnico-culturale fondata sul diverso trattamento da parte dallo Stato, ma anche segnata dalla diffidenza. È su questo sfondo che va letto il dato più controverso emerso dal sondaggio Pew, ovvero che quasi la metà degli ebrei intervistati approva il trasferimento degli arabo-israeliani da Israele. Di fronte all’insensata–nella prospettiva dell’opinione pubblica ebraica- ondata di violenza dell’Intifada dei coltelli, pronta a colpire soprattutto civili ed innocenti in esplosioni di rabbia improvvise, il trasferimento dei nemici interni e l’azzeramento del pericolo debbono apparire – oggi ancor più di un anno fa, quando è stato compiuto il sondaggio (2014-2015)- la risposta più efficace per riavviare le fragili premesse di una normale vita quotidiana.

Tuttavia l’opzione del trasferimento risponde più a un desiderio che ad un’opportunità percorribile, perché appare molto incerto che spostare migliaia di arabi in una Cisgiordania già dilaniata da insediamenti ebraici, possa contribuire a ripristinare la sicurezza nel Paese. Il trasferimento sarebbe forse da intendersi come spostamento degli arabo-israeliani non nell’attuale West Bank, ma nel contiguo Regno hashemita di Giordania, che dovrebbe accoglierli come una nuova ondata di rifugiati. La domanda del sondaggio resta aperta sulla destinazione finale del trasferimento, ma tale ambiguità è giustamente criticata dal sociologo Sammy Smooha, che ha scoperto che definendone meglio i termini, la percentuale degli ebrei israeliani favorevoli scenderebbe al 32%.
In conclusione, il sondaggio Pew riflette l’immagine di un Paese in cui le distanze interne tra i vari gruppi etnici e religiosi si approfondiscono in modo crescente, ma anche in cui la maggioranza ebraica rimane ancorata ad una concezione novecentesca di Stato-nazione contraddistinto da una certa omogeneità etnica, linguistica e religiosa interna, al quale Israele sembra voler ancora tardivamente rifarsi.

* Ricercatrice presso il Centro Studi UNIMED e collabora al progetto EUSPRING all’Università Orientale di Napoli.

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