Cinema

Perfetti Sconosciuti, Paolo Genovese: “Nessuno aveva ancora mai fatto un film così. Non ci potevo credere”

Sette amici attorno a un tavolo, sette telefonini contenenti tutti i segreti delle loro vite, un gioco potenzialmente esplosivo. Il regista di 'Immaturi' e di 'Tutta colpa di Freud' racconta la sua ultima, tragica, commedia. E si chiede: "Possibile che non ci avessero ancora pensato?"

di Malcom Pagani

Titolo provvisorio, L’isola: “In porto arriva un traghetto. Dalle scale scende una fica pazzesca, una escort convocata per allietare l’addio al celibato del locale erede del sindaco. Un ragazzo pronto a sposarsi con la figlia della farmacista per un’unione di interesse, celebrata dall’amatissimo prete dell’isola incline alle parolacce e alla goliardica misurazione degli uccelli dei compagni di calcetto. Il sacerdote, Marco Giallini, è un impostore.

La Polizia lo arresta all’improvviso. Il Vaticano manda un giovanissimo pretino a sanare lo scandalo e a ricelebrare in un mese i 22 matrimoni invalidati dalla Curia. L’escort, nel dubbio di rinunciare a un paio di decine di festini, non riparte e affitta un appartamento. Quando la moglie 87enne di un 92enne si ribella all’idea di pronunciare nuovamente il sì: “Sull’altare non ci vado, riconquistami, io non ti amo più”, il resto dell’isola piomba nel caos. Nessuno è più sicuro di niente e tutto, a partire dalle ragioni di una scelta, è nuovamente in discussione. Nel ruolo di psicanalisti improvvisati e consulenti matrimoniali di una comunità smarrita, si agitano la mignotta sbarcata dalla nave e, da dietro le sbarre della prigione, il prete”.

Nel raccontare il film che un giorno forse girerà e avrebbe senz’altro realizzato se solo non avesse portato in sala Perfetti sconosciuti – una cena, tre coppie, un amico, i loro telefonini al centro della scena, i segreti, la verità, la vita che va in pezzi per gioco e poi, forse, facendo finta che la gara sia arrivare in salute al gran finale, si ricompone – Paolo Genovese, 50 anni ad agosto, 10 film, 39,2° di temperatura corporea: “Il medico dice che far salire la febbre fa bene agli anticorpi, stasera in ogni caso mi scolo un flacone di Tachipirina”, due figli e una figlia particolarmente fiduciosa nel destino e prodiga di abbracci: “Tanto so che l’influenza non me l’attacchi” si prende una pausa. “Non voglio fa’ l’artista – dice – ma stavolta avevo proprio urgenza di mettere in scena questa storia”. Il successo di Perfetti sconosciuti, distribuito da Medusa, avviato verso i 20 milioni di incasso e invitato in concorso a metà aprile al Tribeca Film Festival, giura il suo regista: “È stato inatteso”.

Una seduta di psicanalisi collettiva: “Gli spettatori mi scrivono lettere lunghissime. Non mi dicono semplicemente è bello o fa schifo, ma si aprono. Per qualche strana alchimia condividono una paura, una minaccia, un senso di colpa, il peso di una bugia”.

Come nasce Perfetti sconosciuti?
Da un’idea semplice. Mi sono chiesto: ‘Possibile che nessuno abbia fatto un film sulle relazioni governate dai telefonini? Su quello che affidiamo al mezzo: messaggi, foto, segreti?’. Ho cercato tanto, ma non ci aveva pensato nessuno.

Quindi ci ha pensato lei.
È l’Uovo di Colombo. Ora, a partire dalla Corea del Sud, di Perfetti sconosciuti faranno tanti remake perché il tema è mondiale.

Il tema delle corna e dei segreti?
Il tema della menzogna, di chi abbiamo veramente al nostro fianco, di quanto ci comprimiamo per non sembrare quel che siamo, di ciò che non diciamo per stare dentro il perimetro.

A vedere il film, lo sforzo di compressione sembra enorme.
La gente entra in sala pensando di ridere e poi esce turbata. Non volevo rassicurare nessuno e ho cambiato la conclusione strada facendo. Nella sceneggiatura il film finiva male, ma, mi pareva, non abbastanza male. Volevo un finale spietato, drammatico e senza speranza che lasciasse la stessa amarezza che guardando un thriller proviamo quando l’assassino la fa franca.

Perfetti sconosciuti è una commedia?
Assolutamente. La commedia di per sé è drammatica, ne Il sorpasso e ne La Grande guerra alla fine si muore. Tra comicità e commedia si fa un’enorme confusione. Far ridere è un’arte meravigliosa, ma il peso specifico della commedia rispetto alla comicità è diverso.

Mereghetti propone una paradossale sospensione per le commedie.
Se ne fanno troppe e un po’ troppo uguali. Se un film va bene si cerca di replicarlo con gli stessi ingredienti. Ma quelli intanto si sono annacquati, mentre a essere replicata dovrebbe essere soltanto la filosofia che era alla base di quel progetto: spiazzare. Altrimenti fai fotocopie con un toner in via di esaurimento.

C’era chi credeva che Perfetti sconosciuti facesse parte di un repertorio già visto?
Metterlo in piedi è stato faticoso. Storie intorno al tavolo di una cena erano state già raccontate e l’assunto non brillava per originalità. In un film tutto girato al chiuso che non controlli fino in fondo, non sai dove tagliare e in cui i piani d’ascolto sono più importanti della recitazione, il rischio di realizzare una schifezza era alto.

Non è successo.
Nessuno si aspettava un simile incasso, ma al di là dell’esito, ho capito che le sorprese servono. Ti danno un pizzico al culo. Ti fanno dire: ‘Si può fare qualcosa di diverso’. Di film su commissione, stando attento a non derogare dai cosiddetti gusti del pubblico, ne ho fatti anch’io. Ed è un errore. i fratelli Taviani dicono che non bisogna sempre girare il film che piace al pubblico, ma anche quello che il pubblico ancora non sa se potrebbe piacergli. Hanno ragione.

A lei quali registi italiani piacciono?
Molti. Muccino, Virzì, Garrone, Cupellini, Munzi, Maria Sole Tognazzi la prima a cui ho fatto vedere Perfetti Sconosciuti è Salvatores. Gabriele ha sempre avuto il coraggio di cambiare fregandosene dei consigli interessati e di quel che aveva fatto prima. Ha inseguito la propria curiosità rischiando. Aveva inventato un genere. Avrebbe potuto insistere per decenni. Invece, detto quel che doveva dire, si è spostato altrove. Carriere e parabole andrebbero giudicate sul lungo periodo. Non è detto che in un film andato male non ci sia il seme di un futuro successo.

Salvatores è noto. Paolo Genovese per il pubblico resta un perfetto sconosciuto.
E mi sta benissimo. Voglio che siano noti i miei film, non io. Il sogno è che qualcuno che non sa chi sei vada a vederli perché riconosce il tuo tratto. Per formarsi un proprio pubblico ci vogliono anni. È la mia massima ambizione e, penso, quella di quasi tutti i registi del mondo.

Da ragazzo che sogni aveva?
Le scuole elementari le ho fatte alla Montessori, nel quartiere africano, a Roma, dove i nomi delle strade, da via Tripoli a via Asmara, portano tutti dall’altra parte del Mediterraneo. Si chiamava Libia anche il primo cinema in cui entrai, una sala parrocchiale, per vedere le commedie francesi di stampo cinepanettonesco come Cinque matti al supermercato. All’epoca in cui la Rai trasmetteva esclusivamente sceneggiati, per vedere i film esisteva soltanto la sala.

E per farli?
È stato un caso, un miracolo, un complesso di cose. A 14 anni ho comprato un telecamerone e una centralina di montaggio. Oggi è tutto catturato con i telefonini, ma all’epoca la sola idea di poter unire musica e immagini mi sembrava lunare.

Cosa riprendeva?
Qualsiasi cosa. Mi accorsi che montando le riprese di una giornata al mare potevo rendere la stessa allegra o malinconica a seconda dei suoni o della scelta delle immagini. Fu un’illuminazione. L’idea di poter manipolare la vita e il passato era molto affascinante.

Le interessano i ricordi?
Insieme al tempo che passa sono la mia fissazione perché il ricordo e la sua costante contraddizione sono le chiavi di lettura più efficaci del nostro tempo. Lo fissiamo in immagini per non dimenticarlo e contestualmente, mentre raccogliamo frammenti, in pubblico e in privato, sembriamo del tutto inconsapevoli di essere immortali.

Lei si è laureato in Economia e Commercio.
Papà lavorava alla divisione commerciale della Esso, mamma era casalinga. In una famiglia della media borghesia, l’idea del posto fisso era basilare. Così, in anni più facili e felici di questi, con una tesi sul marketing in pubblicità, trovai immediatamente lavoro. Mi assunse la Deloitte, una multinazionale che si occupa di revisionare i bilanci aziendali. A Roma mi annoiavo e sognando il trasferimento a Parigi o a Londra chiesi di cambiare sede. Mi mandarono a Tirana in un Paese in apnea appena riemerso dalla dittatura di Hoxha. Non c’era niente e tutto andava ricostruito. La Deloitte era responsabile del controllo dei fondi europei. Dovevamo assicurarci che i soldi stanziati per scuole, case e acquedotti venissero impiegati correttamente. Andavamo nei borghi remoti, dove ancora era in voga il baratto. I vecchi ti accoglievano nelle loro case e ti raccontavano storie.

Che tipo di storie le raccontavano?
L’Italia, come raccontò Gianni Amelio, era la terra promessa. E nella spiaggia in cui andavo a fare il bagno, poco fuori Tirana, gli scafisti lavoravano alla luce del sole, accanto al chiosco delle birre. Guardavano tutti la nostra tv. Durante il regime – ti dicevano – la trasgressione massima era sintonizzarsi su Canale 5.

Poi dall’Albania tornò.
Dopo 18 mesi. Mi licenziai da Deloitte e venni assunto in McCann Erickson, una grande agenzia di pubblicità. Dopo due giorni, con gli scatoloni ancora chiusi mi dicono: ‘Perché non vai sul set così capisci cosa significa uno spot?’. Vado, vedo il carrello, le luci, gli elettricisti, la macchina da presa e rimango folgorato.

Lo spot?
Il Camamostro del Televideo. Uno spot assurdo. C’è un uomo che si aggira in una città spettrale in cui tutti gli abitanti, avvertiti dal Televideo, sono rinchiusi in casa perché sanno che per strada si aggira un alieno. Il messaggio era semplice: ‘Se segui il Televideo, davanti alle emergenze, non rimani come un coglione’.

L’ambiente la conquistò nonostante l’improbabilità dello spot?
Impazzii. Una scuola di cinema non avevo potuto farla perché costava troppo e bisognava dar senso alla laurea, ma altro, intuii quel giorno, non avrei voluto fare nella vita. In McCann mi aiutarono molto. Produssero il mio primo cortometraggio, Incantesimo napoletano, scritto e diretto con Luca Miniero.

Con il regista di Benvenuti al Sud lei ha girato molte pubblicità e tre film per il cinema.
Ci licenziammo da McCann e ci mettemmo in proprio per realizzare spot. Il primo contratto lo firmammo con Filmmaster. C’era scritta sopra una cifra a cui non potevamo credere. Pensavamo fosse lo stipendio annuale, in realtà si trattava di una sola mensilità. Poi, di tanta generosità, capimmo anche le ragioni.

Ce le illustra?
Guadagni bene e magari, dallo spot successivo, non ti chiama a lavorare più nessuno. È un ambito condizionato dalle mode del momento e dall’esito di una campagna. In pubblicità ci sono molti soldi, se vuoi avere un elicottero per girare, te lo danno. Il contrappasso è l’usura rapida, l’oblio senza ragioni apparenti. Ho visto tantissimi professionisti straordinari sparire da un giorno all’altro. Il telefono, improvvisamente, non squillava più.

Con gli spot lei e Miniero avete vinto molti premi.
La pubblicità mi ha insegnato il dono della sintesi e la tecnica. Con il tempo ho capito che se la sintesi è imprescindibile, la tecnica non è fondamentale.

A un certo punto vi siete separati. È stato doloroso?
È stato naturale. Due registi sono le persone meno indicate per lavorare insieme. Noi l’abbiamo fatto per tanto tempo solo perché eravamo entrambi autodidatti. Non ci sembrava possibile che ci facessero fare i registi. Per me dire azione era un po’ come andare sulla luna con la tuta di Neil Armstrong.

L’autonomia è servita a entrambi.
Meno male. È stato liberatorio. Se penso al nostro primo claudicante cortometraggio, mai uscito per problemi di audio, la storia di una ragazza, poi diventata mia moglie, innamorata a sua volta di un fidanzato immaginario, tutto quel che è venuto dopo mi sembra incredibile.

E cos’altro le sembra incredibile?
Che mi paghino bene per fare il lavoro che ho sempre sognato di fare.

Oggi dispone di budget notevoli.
Il primo film per il cinema, Incantesimo Napoletano, costò meno di 200.000 euro. Qualcosa dopo è accaduto.

Dicono che lei non si arrabbi mai.
So di essere un privilegiato assoluto e l’isterismo da set non lo capisco. Durante Immaturi, sull’isola di Paros, l’attrezzista dimenticò di mettere la copertura subacquea sulla Mdp a un passo dalle riprese. Potevo perdere la testa, poi mi guardai intorno. Il sole, il mare, la troupe rilassata che aveva fatto il bagno fino a 10 minuti prima. Respirai e sorrisi.

Neanche un alterco in tanti anni di set?
Mi irritai molto con Raoul Bova e Ricky Memphis a pochi giorni dall’inizio del sequel di Immaturi. Il primo capitolo era andato molto bene, le “sensibilità” si erano alzate di tono e tra una pretesa di mettere le mani sul copione e una lamentela sul ruolo, minacciarono entrambi di buttare tutto all’aria. Ero furibondo, però mi trattenni. Litigare avrebbe significato mandare a monte il film. Credevo nel progetto. Non era un’operazione elementare. Mi tenni tutto dentro e mi chiarii con loro in un momento più propizio.

Qualche compromesso, come in Perfetti sconosciuti, è essenziale?
È essenziale la leggerezza che è molto diversa dalla superficialità.

Qualche leggerezza l’ha compiuta anche lei?
Da ragazzo ero molto di sinistra. Ci fu una manifestazione contro Pinochet sotto l’ambasciata cilena e nonostante il divieto dei miei democristianissimi genitori: ‘Non vai, è pericoloso’ mi presentai per tenere in prima fila lo striscione: ‘Compagno Allende, il Cile non si arrende’. A riprendere il tutto, una troupe del Tg3. A casa, davanti alla tv, i miei genitori. Prima si preoccuparono, poi si incazzarono molto. Io, ignaro, rientrai tardi e trovai un piccolo inferno.

Oggi dirsi di sinistra ha un senso?
Macché. Destra e sinistra sono morte e forse è anche meglio così. La disgregazione della politica toglie gli alibi e mette finalmente le persone al centro della scena. Con le loro responsabilità. Con le loro scelte.

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