Per qualcuno è un viaggio di sola andata lungo una strada di campagna mai percorsa prima. Per altri, invece, è il ritorno a una quotidianità che non conosce traffico né frenesia, ma ha il sapore dell’infanzia e della genuinità. Ciò che accomuna tutti è la voglia di cambiare. La propria vita, soprattutto. Lasciarsi la città alle spalle per traslocare in un antico borgo medievale da 200 abitanti, in un casolare sulle Alpi settentrionali, in una cascina contadina dell’anteguerra, legata al mondo moderno solo da una strada sterrata. Sono gli uomini e le donne che ritornano ai luoghi abbandonati d’Italia, per costruire il proprio futuro sulle professioni del passato. Un fenomeno in controtendenza rispetto all’urbanesimo anni 50, quando le campagne si svuotavano direzione città in cerca di un posto fisso nelle grandi fabbriche. “Ma che contribuisce al ripopolamento di quelle aree a rischio desertificazione demografica”, spiega Silvia Passerini, tra i fondatori della Rete del Ritorno. “E’ la dimostrazione che il futuro si trova anche nelle tradizioni”.

Per Roberta Capanna, l’avvenire è nelle sue piante officinali. Fino a qualche anno fa lavorava per una società di servizi, in Liguria, si occupava di personale e le sue giornate somigliavano a quelle di chiunque altro. “Era tutto lavoro, e finiva sempre che si veniva risucchiati nel vortice frenetico che è la quotidianità. Te la porti a casa, e non c’è più tempo per fare altro”. Poi una passeggiata in Valle Grana, in provincia di Cuneo, e Roberta vede per la prima volta Borgata Crovero. Sulla mappa è un’area verde tra alberi di faggio e piante di castagno, senza riferimenti, se non una sequenza di coordinate. “Il ritmo della mia vita è cambiato completamente. Lavoro seguendo le stagioni, più che l’orologio, e la fretta è una fretta diversa, scandita dal ciclo solare. In città ci affanniamo: ma per cosa?”. Una delle sue tre figlie oggi lavora con lei, in Borgata, ma le altre due sono a fare i conti con i problemi della classe 1980, cioè crisi, disoccupazione, precariato. “Ci sono poche prospettive, molta insoddisfazione, e quando le guardo penso che forse è qui, dove sono io, che si nasconde la speranza per il futuro. Nel ritorno alla natura, alle nostre origini”.

Una scelta simile a quella fatta da Alain Lanot e da sua moglie Viviana Vignandel, che 10 anni fa hanno abbandonato l’industriosa Milano in favore di Fortunago, nell’Oltrepò pavese, il borgo da 380 abitanti immortalato dal Capitale Umano di Paolo Virzì. “Per tanto tempo abbiamo pensato alla carriera, vivevamo vicino all’Idroscalo, ci svegliavamo presto e tornavamo a casa tardi”. Poi, la coppia ha iniziato a lavorare un piccolo orto a Cascina Santa Brera, nel milanese, e il profumo della terra appena smossa Alain e Viviana non sono più riusciti a dimenticarlo. Così hanno comprato 4 ettari di terreno all’asta, Viviana produce ottime marmellate artigianali, coltivano la terra e assieme ai due figli stanno costruendo a mano la loro casa, fatta completamente in paglia, argilla e legno. “E’ stato un bel salto nel vuoto, lasciare tutto per trasferirci qui – sorride Viviana – prima la mia identità era determinata dalla mia professione, e mio marito lavorava per Citroen, sempre in viaggio. Ma oggi guardo le colline, oltre la finestra, e sento che è questo è il luogo dove voglio crescere i miei bambini. Certo, c’è voluto tanto lavoro. E tanto coraggio. Non è stato facile disimparare a correre per godere di ciò che ci circonda. Ma è un’esperienza nuova ogni giorno. E se nessuno tornasse a vivere in questi luoghi a rischio abbandono, finirebbero per scomparire in pochi anni, assieme alle loro tradizioni”.

Eugenio Barbieri, invece, era ricercatore e professore a contratto all’università di Pavia prima di decidere di traslocare nel casolare costruito dal bisnonno per diventare viticoltore. La sua storia, più che un ritorno, è un viaggio solo andata, che sa molto di serendipità. “A 28 anni, ingegnere e dottorando, partii per gli Stati Uniti, e lì fui ospite di un professore, che viveva in una casa in legno autocostruita, in uno spazio verde incolto. Vedere un uomo di cultura capace di fabbricare da sé ciò di cui aveva bisogno mi colpì molto, e mi fece capire che alla mia vita mancava qualcosa. Così l’ho cambiata”. Da Pavia si è spostato a Rivanazzano Terme, al confine col Piemonte, e le sue giornate seguono il ciclo della terra. “E’ come scoprire che c’è un altro mondo oltre le mura cittadine. I contadini un tempo godevano di ciò che avevano, e taravano i propri bisogni sulla base di ciò che il mondo aveva fa offrire. Io vivo così, e sono sempre soddisfatto”. Per molti, riflette Eugenio, “il ritorno ai luoghi abbandonati è anche una forma di contestazione rispetto a una società – intesa come modo di vivere – in cui non si riconoscono più. Per me l’input è stato diverso, ma la necessità che tanti sentono di costruirsi una realtà nuova, al di là di quella urbana, fa riflettere”.

Molti giovani, oggi, lo cercano all’estero quel futuro che in Italia sentono negato. “Finiti gli studi provano quasi l’obbligo di andare via. Non più al Nord, come accadeva in passato, ma all’estero. È un peccato, perché per evitare che la nostra storia scompaia serve che le nuove generazioni rimangano”. Marianna Cardone, 40 anni tra pochi giorni, pugliese di nascita, quella decisione l’ha presa 15 anni fa, quando si è laureata all’Università Bocconi di Milano. “Non è stato facile, perché a 20 anni vuoi essere libera dalla famiglia, che al Sud è anche una rigida gerarchia. Dovevo decidere se tornare a fare la figlia, o se tentare la mia strada. Poi però mi sono resa conto che riportare a casa ciò che avevo imparato in quegli anni in città lo dovevo sia alla mia famiglia, sia alla mia terra”. Da tre generazioni i Cardone producono vino in Valle d’Itria, a Locorotondo, “e c’è una tradizione che voglio preservare”. La storia di una famiglia che poi è quella di una comunità, con i bambini che giocano in cortile mentre i grandi lavorano l’uva. “E’ un patrimonio da custodire gelosamente, nostro italiano. E ai ragazzi dico ‘non arrendiamoci, rimbocchiamoci le maniche’”.

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