FIRENZE – “Teatrale: istrionico, melodrammatico, plateale, affettato, artificioso, caricato, enfatico, esagerato” (Dizionario Treccani)
“No, ragazzo no, tu non mi metterai tra le dieci bambole che non ti piacciono più” (Patty Pravo, La Bambola)

casa-di-bambola-_-foto-di-tommaso-lepera-2-medium

Era passato molto tempo dall’ultimo volta che ero andato a teatro la domenica pomeriggio. E’ un mondo a parte. Come in un compito di matematica alle elementari: se facciamo un rapido conteggio, in un teatro come quello della Pergola fiorentina che ha un migliaio di posti a disposizione, quanti colpi di tosse e raucedine abbiamo se ognuno si raschia la gola in media tre volte? Il risultato è talmente opprimente, sgradevole, disturbante, insopportabile che fa drammaturgia, va a scandire battute e scene, dialoghi e luci. Se non sei già malato, il posto giusto per (r)accogliere tutti i bacilli è il teatro. Caramelle scartate, poi la confezione accartocciata, per non parlare dei continui flash e suonerie, addirittura una sveglia, lampi nel buio, nasi otturati, pilori occlusi, esofagi bloccati, soffiate energiche di narici, enfisemi in corso, embolie annunciate, starnuti con varianti di tonalità e importanza, sembra che si rispondano a colpi sempre più veementi, come coro muto della Butterfly, alla ricerca disperata di uno sciroppo lubrificante.

All’inizio Filippo Timi sembra lasciare la maschera del guascone e immergersi in Ibsen. Siamo sorpresi. Più scorrono le scene, però, e più l’animale da palcoscenico tenta di forzare la mano e di uscire dal guscio che il personaggio costruisce attorno all’attore, riuscendoci, purtroppo. Se in Amleto o le Briosche, Don Giovanni o Favola, Timi diveniva caricatura debordante di se stesso (e al pubblico ululante piaceva anche per questo), “Una casa di bambola” lo costringe ad una staticità, a un’introspezione, ad una fissità che ne limita le fuoriuscite, i cavalli di battaglia, le personalissime prese di posizione sceniche.

Andrée Ruth Shammah, la regista e anima del Teatro Franco Parenti di Milano, costruisce un impianto borghese prevedibile tutto su toni rosei (vestito, pareti, sedie) per delineare una scena fintamente tranquilla e placida che poi declinerà sul noir, supportato da un ambiente sonoro che ci spinge nella suspense e nel thriller. La vera eroina femminista è questa Nora (Marina Rocco, meglio come spalla che quando deve tenere le redini del gioco), che infatti irrompe fischiettando “La Regina della Notte” del Flauto magico mozartiano, come a mettere le carte in tavola e a preannunciare che tutto girerà attorno alla sua figura ambigua. Nora, come novella Rossella O’Hara in “Via col vento”, tiene tre uomini-pedine in scacco, appesi ai suoi fili di grande burattinaia, schiacciata dal peso di un padre ingombrante si vendica su altri esponenti del cosiddetto sesso forte, li ammansisce, fa finta di essere devota e remissiva per poi affilare le sue armi, la sua tela di ragno dove inevitabilmente restano invischiati il marito (stucchevoli vezzeggiativi che ci portano dritti a Ned Flanders, cristiano devoto e vicino di casa di Homer Simpson), il dottore, l’usuraio (lontano da Dostoevskij), tutti e tre interpretati da Timi (recentemente in tv con il freno a mano tirato tra i non memorabili “I delitti del Barlume” e “Tadà”).

A tratti Nora, prima di ribellarsi e prendere coscienza, abita in una bolla d’attesa cechoviana. Quella che vediamo è una casa di bambola e tutti, tranne Nora (fredda, algida, forse anche frigida, si nega sempre agli uomini) che impersona la bambina che gioca e sposta e cambia, sono pupazzi di plastica, manichini pronti a soccombere e che da un momento all’altro possono essere rimessi nel buio di una scatola dalla croupier di una mano con le carte truccate.

Abbiamo apprezzato la figura nera longilinea lugubre pece, come un’ombra della sera giacomettiana o etrusca, che si staglia a seguire le scene, lì in un angolo in penombra; è la morte, la fine dei giochi, l’estinzione di un’età, la verità che fa capolino aspettando la sua soddisfazione, il suo osso di virtù e vendetta. Fin qui il trash classico delle piece di Timi (emana comunque grande carisma che ammalia e affascina le folle) è tenuto a bada dalla morale con la quale Ibsen infarcisce i propri testi, con quella fremente doppia ipotesi tra la verità e la falsità, tra il giusto e lo sbagliato, il libero arbitrio tra la limpidezza e la trasparenza e il dolo.

I migliori sul palco risultano essere Mariella Valentini, signora delle soap (una su tutte “Vivere”), che rimane ancorata al contegno senza tralasciare senza travalicare, ago della bilancia tra Nora (all’inizio raffigurata come leggera e frivola) e i suoi uomini, fuchi attorno all’ape regina, collante e mastice, e Andrea Soffiantini, cameriera en travestì, molto Paolo Poli prima maniera, che si esprime con amplomb impeccabile nelle sue frasi fatte e proverbi.

La platea, quando c’è Timi (dimagrito e con i baffi somiglia a Eduardo de Filippo), tenta e si sforza di ridere anche con Ibsen e il mattatore si fa prendere la mano; esce dal sipario a scambiare due battute con le prime file, fa domande al pubblico come fossimo ad un concerto, esonda, cerca l’approvazione facile e ridanciana, da parte di quella larga fetta di ascoltatori che lo vogliono sempre sopra le righe, comico, sfacciato, altisonante, esagerato come quando scrive una lettera e ne fa un aeroplanino con conseguente “ooh” e sghignazzi degli abbonati. E allora Timi dice la battuta e poi guarda ruffiano in sala, sorride sornione, fa un’imitazione di un cinese, gioca continuamente uccidendo il personaggio, e quindi il teatro, e promuovendo (e non ne avrebbe bisogno) la sua persona, il suo essere attore che sbraca, sfora, si lascia andare al galoppo, in una diffusa aria poco seria, da sberleffo costante, atmosfera da pantomima, da farsa, manfrina e sceneggiata. La sua forza è questo non sapersi controllare. Che è anche il suo limite.
Visto al Teatro della Pergola, Firenze, il 28 febbraio 2016.

Articolo Precedente

Roma: ‘Vendesi posto auto’ a via Giulia. Il parcheggio si farà (nonostante il Tar)

next
Articolo Successivo

Colin Ward, ‘Architettura del dissenso’: sulle forme e le pratiche alternative dello spazio urbano

next