Pjerin Gjoni sta ancora cercando il brindisino che gli regalò 17mila lire per telefonare a casa e comprare un pezzo di focaccia. Nel frattempo è diventato un medico del 118, ha ricostruito la sua vita in Italia e vorrebbe ringraziare l’uomo che quel giorno lo aiutò e poi sparì. Era il 7 marzo 1991. A Brindisi, 90mila abitanti in tutto, arrivarono venticinquemila albanesi in meno di ventiquattr’ore. Un esodo: donne, uomini e bambini chiedevano un pezzo di pane e libertà, stremati da decenni di regime comunista guidato da Enver Hoxha e Ramiz Alia. La città rispose con le proprie forze. “Le luci delle case, degli uffici e delle scuole non si spensero per tre giorni. Un intero popolo aprì le porte e mise a disposizione tempo, forze e beni per accoglierci. Fu un miracolo”. Oggi che la Puglia rischia di tornare a essere il corridoio d’ingresso verso l’Europa di nuovi migranti, il gesto di solidarietà dei brindisini e le nuove vite dei disperati d’allora – diventati intanto operai, dottori, manager con accenti pugliesi e milanesi – si fanno paradigma di accoglienza e d’integrazione. Una storia per molti sbiadita, iniziata un giovedì qualunque di venticinque anni fa.

“Sembrava New York”  La prua della Lirja fa capolino a Brindisi alle 10. Trentasei ore prima, cinquemila persone vestite di stracci e di speranza l’avevano presa d’assalto nel porto di Durazzo. Fino a quel giorno, le sessanta miglia nautiche tra la Puglia e l’Albania, ultima appendice del comunismo, erano state uno spazio enorme. Su quel boat people, stretto tra migliaia di sconosciuti, c’è Pjerin con sua madre. Due ore più tardi tocca al mercantile Tirana arrivare nella rada brindisina con il suo carico di seimila albanesi. Alzano le dita in segno di vittoria, gridano “Italia, Italia”. Mostra l’indice e il medio anche Nexhip Hyseni, 32 anni, operaio in un’industria automobilistica che assemblava pezzi arrivati dalla Russia e dalla Cina. Nel pomeriggio, ecco la nave Apollonia e sei pescherecci. La Guardia costiera fuori dal porto rinuncia al blocco: quelle carrette del mare rischiano di ribaltarsi affogando migliaia di profughi e le loro speranze. Mentre i brindisini cucinano la cena, compare la Legend e la situazione degenera. La stazione marittima e la banchina di Sant’Apollinare traboccano già di gente affamata, stanca e disperata. Dal mercantile scendono, alcuni calandosi dalle cime o gettandosi in acqua, oltre settemila albanesi. Tra loro ci sono Arben Guxholli e Astrit Cela, un perito meccanico di 29 anni e un professore di tre anni più giovane. “Non avevo mai visto il profilo di una città così illuminato. Era Brindisi, ma a noi sembrava New York”, racconta Astrit. Piove e fa freddo. La Croce Rossa distribuisce pacchi di viveri lanciandoli dalle cabine telefoniche per non essere assalita; un’azienda chimica dona teli di plastica con i quali ripararsi dal maltempo. Pjerin, direttore dell’ospedale civile di Kryevidh, aiuta centinaia di persone in preda a vomito e dissenteria. La madre trasforma un bidone dell’immondizia in un comodo divano per riposare le gambe. Nella notte tra giovedì e venerdì inizia la fuga dalla spianata che accoglie gli oltre ventimila profughi, composta e blandamente controllata da poliziotti e carabinieri.

“Hanno solo fame e freddo, aiutateli” Anche Astrit e Arben scavalcano le reti. “Sembra oggi, non devo neanche chiudere gli occhi per rivivere tutto. Stremato e spaesato, dormii con alcuni amici in un’auto abbandonata. Al risveglio la gente ci osservava incuriosita dai balconi. In Albania captavo le frequenze di Rai e Telenorba e avevo imparato l’italiano, almeno un po’. Scrissi un biglietto: ‘Scusateci se abbiamo occupato la macchina’. Sporchi e puzzolenti, ci avviammo verso il centro della città”, ricorda Arben. Al chiarore dell’alba, molti quartieri iniziano ad essere affollati di albanesi affamati. È il momento più critico perché la disperazione può prendere il sopravvento da un momento all’altro. Il sindaco Giuseppe Marchionna parla ai brindisini attraverso radio e tv locali: “Dovevo essere rassicurante perché sarebbe bastato il saccheggio di un negozio di alimentari per scatenare una guerra a mani nude. Dissi: ‘Hanno solo fame e freddo, aiutateli’. Registrai il messaggio alle 8, venne mandato in onda ogni quarto d’ora per tutto il giorno – racconta Marchionna – Alle 13 ebbi il primo segnale: la gente gettava sacchetti pieni di cibo dalle finestre”.

Il miracolo inizia così, grazie all’intuizione di un giovane amministratore. Da quel momento, la città dà il via a una gara di solidarietà senza precedenti né repliche. Il prefetto Antonio Barrel requisisce 36 scuole trasformandole in dormitori, Marchionna chiede alle mense aziendali di cucinare duemila pasti in più al giorno. Il resto lo fanno i brindisini. Solo martedì 12 inizieranno ad arrivare gli aiuti da Roma. Il vice presidente del Consiglio Claudio Martelli fa mea culpa: “Nelle emergenze questo Stato è vecchio, lento e asmatico”, dice dopo essere arrivato a Brindisi. Intanto i condomini organizzano mense negli scantinati e nei garage, migliaia di persone aprono le porte delle proprie case: alcuni concedono l’uso della doccia, chi ha una stanza libera ospita donne e bambini. “Scrivi il suo nome per favore – ricorda Astrit – si chiamava Carlo Fenderico. Si fermò mentre vagavo sulla tangenziale. Mi portò nel suo appartamento, rivestì da capo a piedi me e altri due ragazzi. E ci permise di chiamare in Albania per rassicurare i nostri parenti”.

Una nuova vita per tutti – Dopo tre settimane di straordinari negli ospedali, decine di casi di scabbia, il tardivo invio dell’esercito e il trasferimento dei profughi a Palermo, Capua e Udine, Brindisi torna lentamente alla normalità. Il presidente Giulio Andreotti ammette che “lo Stato non può tutto” e chiede uno sforzo alle famiglie. L’amministrazione del capoluogo pugliese allestisce un call center per raccogliere le chiamate di centinaia di persone disposte a ospitare gli albanesi. Parte anche Astrit: desiderava il nord fin dal suo sbarco. Viene ospitato per una mese da una coppia di Abbiategrasso, poi il primo lavoro in fabbrica. “Ero un professore di francese. Ho dovuto ricominciare da zero, con umiltà”, sorride ora seduto al tavolino di un bar in piazza Cordusio, a Milano. È un funzionario della Camera di commercio, ha sposato una milanese e ha un figlio, Edoardo, che ama andare in vacanza in Albania.

Pjerin Gjoni, Arben Guxholli e Nexhip Hyseni sono rimasti a Brindisi. Dicono d’essere stati fortunati perché conoscevano l’italiano. Dopo l’emergenza di quei giorni, vissuta fianco a fianco con la Croce Rossa, Pjerin ha dovuto togliere il camice per un lungo periodo. Il suo titolo, qui in Italia, non aveva alcun valore. Ha fatto il contadino, lo sfasciacarrozze e il badante. Nel frattempo si è iscritto alla facoltà di medicina a Bari: laurea con 110 e lode nel 1997. Diventato di nuovo un dottore, è in servizio presso il 118 e aspetta d’incontrare l’uomo delle 17mila lire. Arben, dopo aver dormito in un asilo ed essere stato ospite di un signore con il quale è amico ancora oggi, si presta come interprete per smistare i profughi. A metà maggio di venticinque anni fa ricomincia come meccanico in un’officina e si ricongiunge con la moglie e il figlio, che il giorno della partenza non era riuscito a salutare. Dal 1999 lavora come perito all’Avio Group. Nexhip, subito dopo lo sbarco, aiuta la Cgil a dialogare con i suoi connazionali. Diventa indispensabile per compilare centinaia e centinaia di codici fiscali e libretti di lavoro degli albanesi che trovano occupazione in Puglia. Il sindacato decide di aprire un ufficio per l’Immigrazione: “Nexhip, tocca a te”. Ancora oggi sbriga le pratiche burocratiche di immigrati provenienti da 75 diversi Paesi e residenti in provincia.

Giuseppe Marchionna è stato il primo sindaco italiano a ricevere dall’Unicef il titolo di “Difensore ideale dei bambini” e nei mesi successivi ha girato l’Europa per spiegare ad alcuni governi come aveva gestito la prima ondata migratoria innescata dal crollo del Muro di Berlino. L’Albania ha iniziato a cambiare marcia, molti figli di quell’esodo sono rientrati a Tirana e tanti italiani investono nel Paese delle Aquile. Cinque anni fa, Giorgio Napolitano ha ricevuto una lettera scritta dall’allora sindaco Domenico Mennitti nella quale si chiedeva di riconoscere a Brindisi la medaglia d’oro al valor civile. L’ex presidente della Repubblica, dice Marchionna, non ha mai risposto. Nonostante Arben riassuma quei giorni di marzo in dodici parole: “Dobbiamo tutto ai brindisini. Senza di loro, molti di noi sarebbero morti”.

Twitter: @andtundo

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