Giorni fa leggevo la notizia sull’esito di una lite familiare che coinvolge uno dei più importanti gruppi della grande distribuzione italiana, un’azienda che tutti ci invidiano per quanto il suo creatore sia stato abile nel renderla un successo inarrivabile. La notizia mi ha fatto riflettere, non tanto per l’argomento della complessa vicenda giudiziaria (di cui conosco solo i risvolti resi noti dalla stampa), quanto perché richiamava alla mia attenzione un tema di fondamentale importanza per il futuro del nostro Paese: il passaggio generazionale.

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Fortunatamente per la società oggetto della notizia, per il suo creatore e per i suoi dipendenti il tema che affronto non li riguarda direttamente: sono così strutturati e di dimensioni così importanti da non essere minimamente intaccati dal problema. Il loro futuro è assicurato dalla organizzazione e dalla struttura.

Ma quante imprese italiane possono dirsi così tranquille? Poche se consideriamo che secondo l’Istat il 94,8% delle imprese italiane è di dimensione “micro”: si tratta cioè di aziende che hanno meno di 10 dipendenti e che, quindi, si reggono sull’apporto lavorativo e competitivo dell’imprenditore e dei suoi figli.

Il problema non è di poco conto, visto che stiamo discutendo del futuro del 46% dei lavoratori italiani e di aziende che, seppure di piccole dimensioni, hanno un ruolo determinante nella creazione della ricchezza del Paese, contribuendo ciascuna di esse a generare una parte del Pil italiano.
Ovvio che se la famiglia è una squadra, come tutti i gruppi coesi, può riuscire a vincere nella competizione commerciale grazie alla agilità, alla flessibilità nell’offerta e all’elasticità mentale: in questo modo le imprese riescono a realizzare, “disegnandolo” sul cliente, un prodotto che meglio si adatta alla caratteristiche del singolo.

Se, invece, la famiglia litiga non solo si creano lotte intestine e gruppi di potere interno che bloccano qualunque iniziativa, ma soprattutto si genera un conflitto che assorbe energie psico-fisiche e risorse economiche, in modo particolare laddove si dia avvio a lunghi contenziosi giudiziari. In casi come questo l’azienda rischia l’implosione, con gravi ripercussioni anche a livello macroeconomico, in termini di posti di lavoro (il famoso 46% dei lavoratori subordinati); di perdita di competitività e di ricchezza per l’indotto che collaborava nel processo produttivo e/o distributivo dell’azienda (la quota di PIL cui ogni singolo contribuisce).

La domanda è, quindi, quante del 94,8% delle aziende italiane possono dirsi altrettanto tranquille sul loro futuro e, soprattutto, in grado di gestire in modo sereno un passaggio generazionale, evitando un disastroso conflitto familiare? Quante sono, quindi, in grado di dire che hanno organizzato il loro futuro poiché tutto non si regge sulla figura del suo creatore? Secondo le statistiche poche: solo il 25% delle imprese sopravvive alla seconda generazione di imprenditori e solo il 15% alla terza.

Un disastro per il tasso di occupazione se applichiamo queste statistiche al numero degli addetti: vorrebbe dire che, stante un numero totale di occupati di 22.632.000, 10.410.720 sono i soggetti che lavorano in micro imprese (cioè il 46% del totale) e, quindi, che di questi solo 2.602.608 circa potrebbe dirsi tranquillo per come il passaggio generazionale verrà gestito all’interno della propria azienda. Gli altri dovrebbero, invece, tremare.

Ciò è dovuto in primo luogo al fatto che chiunque di noi si sente eterno: è il famoso problema della gerontocrazia che costringe i giovani a migrare all’estero. Talvolta il creatore sente l’azienda come una creatura propria, cui è morbosamente affezionato al punto da ritenere impossibile che altri la possano guidare verso il successo.

Il secondo fattore critico è dato dal fatto che talvolta i figli dell’imprenditore ritengono che ad essi spetti un posto di rango nell’azienda familiare, quasi fosse un diritto divino ed a prescindere dalle loro competenze, dalla fatica e dalla necessità di inserirsi con discrezione in una macchina in corsa.

Infine, bisogna considerare il mix esplosivo che talvolta nasce dalla collaborazione tra nuova e vecchia generazione: il senior impedisce al junior di esprimersi appieno e pretende che replichi il suo modello comportamentale; il junior si sente bloccato e costretto a fare proposte che potrebbero portare innovazione, ma che verrebbero rifiutate per principio dal senior.

Insomma, per il bene di tutti la questione del passaggio generazionale non può essere in alcun modo sottovalutata e deve essere governata con l’aiuto di competenze esterne alla famiglia, in modo che i due principali difetti cui sopra ho fatto menzione siano attenuati.
Negli anni più duri della crisi, quando vedevo bravissimi lavoratori con competenze straordinarie essere licenziati per la soppressione del posto, ho cercato invano di convincere le micro e piccole aziende che questo era per loro una grande occasione: potevano fare ricorso a professionalità per loro un tempo inaccessibili e grazie a queste avrebbero potuto capire ed organizzare meglio il proprio futuro. Avrebbero potuto consapevolmente decidere se era meglio una successione interna o se, invece, era preferibile una cessione a terzi, che ovviamente sono disponibili a comprare ed a pagare il giusto prezzo solo se la struttura è organizzata e funziona.

Nel primo caso, grazie al manager a tempo avrebbero potuto rafforzare le capacità manageriali dei figli, che avrebbero visto nel manager a tempo un loro mentore ed un aiuto nel conflitto con il padre; nel secondo il supporto esterno avrebbe potuto aiutare a rafforzare i punti deboli, così da preparare l’azienda ad essere presentata sul mercato. Questo avrebbe anche consentito di far crescere risorse interne, che avrebbero potuto anche avere un ruolo all’interno del futuro assetto societario.

Io, purtroppo, ho parzialmente fallito. Ho fatto moltissime presentazioni; ho coinvolto molte persone involontariamente disoccupate per cercare con loro di costruire progetti per specifiche realtà aziendali; ho cercato per come mi era possibile di sensibilizzare le aziende sul tema, ma purtroppo i successi li conto solo sulle dita di una mano. Questa cosa mi lascia assolutamente insoddisfatto e mi preoccupa per il futuro.

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