Il sanguinoso conflitto siriano è sempre più un teatro di tragici paradossi. Recentemente l’artiglieria turca schierata sul confine ha preso di mira i curdi che dall’énclave di Afrin avanzavano verso est a spese dei ribelli appoggiati da Ankara. Si tratta degli stessi curdi siriani che Washington sostiene con la propria aviazione e con l’invio di armi nella lotta contro l’Isis, il sedicente califfato.
In Siria, dunque, un membro della Nato – la Turchia – è in conflitto con un altro alleato americano – i curdi. Ankara, infatti, non vuole che questi ultimi creino una regione autonoma sul proprio confine meridionale.

Ma i paradossi si moltiplicano nel momento in cui scopriamo che i curdi appoggiati dal Pentagono si scontrano anche con alcuni gruppi ribelli armati dalla Cia. In altre parole, l’America sembra essere non solo ai ferri corti con i propri alleati regionali in Siria, ma in guerra con se stessa.

Ciò deriva dal fatto che Washington ha perseguito una politica ondivaga e contraddittoria nel conflitto.

La Casa Bianca ha inizialmente puntato sulla rimozione del presidente siriano Assad. Pur non volendo impegnare proprie truppe sul terreno, ha coordinato un programma di armamento dei ribelli a partire dal 2012, assecondando alleati come Qatar e Arabia Saudita.

Quando poi l’Isis compì la sua incredibile ascesa, culminata con la creazione del sedicente “califfato” nel giugno 2014, il Pentagono avviò in Siria un programma di selezione e addestramento di ribelli che fossero disposti ad anteporre alla lotta contro Assad quella con il neonato Stato Islamico.

Il progetto rientrava nel quadro della più ampia strategia americana per sconfiggere l’Isis, imperniata sull’impiego di forze regionali e locali: i peshmerga del Kurdistan iracheno, l’esercito di Baghdad e le milizie sciite irachene.

Tra defezioni dei ribelli ed armi finite in mano a gruppi jihadisti, il programma del Pentagono in Siria si rivelò un fallimento. Invece di selezionare e addestrare milizie siriane, i vertici militari Usa decisero perciò di puntare su forze già presenti sul terreno, come i curdi.

Nel frattempo, già a partire dal 2013, la Cia aveva lanciato un proprio piano segreto in Siria, per l’addestramento di ribelli che combattessero contro il regime di Assad. Esso si rivelò ben più efficace di quello del Pentagono, sfornando circa 10.000 combattenti nei due anni successivi.

Nella primavera del 2015 questi gruppi ebbero un ruolo nell’offensiva che portò alla caduta della provincia di Idlib nelle mani dei ribelli. Supportata a livello logistico da paesi come Turchia, Qatar e Arabia Saudita, tale offensiva ebbe il via libera di Washington, desiderosa di mostrare ai propri alleati che l’accordo nucleare in fase di negoziazione con Teheran non avrebbe comportato un tradimento americano nei loro confronti.

L’offensiva di Idlib mostrò tuttavia come i ribelli armati dalla Cia fossero subordinati a gruppi estremisti come Ahrar al-ShamAl-Nusra (formazione affiliata ad Al-Qaeda), che godevano dell’appoggio logistico e finanziario di Ankara e Doha.

Se la contraddizione fra il programma della Cia e quello del Pentagono ha portato ai recenti scontri fra ribelli e curdi in Siria, la commistione con Al-Nusra è invece il fattore che ha spinto il segretario di stato John Kerry a proporre di includere il gruppo legato ad Al-Qaeda nella tregua in via di definizione a Ginevra.

La proposta americana puntava a evitare che scoppiassero scontri armati anche fra Al-Nusra e gli altri gruppi ribelli. Ma, prevedibilmente, essa ha cozzato contro la ferma opposizione di Mosca.

“Offshore balancing”
Al di là di simili paradossi, il dato che emerge dall’approccio della Casa Bianca in Siria e Iraq è la generale riluttanza a dispiegare forze americane sul terreno, fatta eccezione per addestratori e forze speciali.

Questo atteggiamento riflette una scelta strategica che va al di là della volontà di non ripetere l’esperienza fallimentare delle invasioni di Iraq e Afghanistan, e si può sintetizzare nella formula di un progressivo disimpegno militare (ma non politico) dal Medio Oriente.

Nel 2011, proprio mentre infuriavano le rivolte arabe, il presidente Obama aveva annunciato il cosiddetto “pivot to Asia”, ovvero il dispiegamento del 60% delle forze aeronavali Usa nel Pacifico entro il 2020. La scelta era dettata dall’esigenza di contenere il vero avversario strategico degli Stati Uniti nel XXI secolo: la Cina.

Il degenerare delle rivolte arabe in conflitti come quello siriano, e l’emergere dell’Isis, hanno però posto la Casa Bianca di fronte a un dilemma strategico di difficile soluzione. Dopo l’attacco chimico del 21 agosto 2013 in Siria, Obama era stato sul punto di farsi trascinare in un nuovo intervento armato in Medio Oriente.

Alla fine, tuttavia, l’amministrazione americana è rimasta generalmente fedele al proprio obiettivo di ribilanciamento militare verso il Pacifico (e verso l’Europa, dopo lo scoppio della nuova “guerra fredda” con Mosca).

In Medio Oriente ciò non ha significato affatto l’uscita di scena di Washington, ma l’adozione di una strategia di offshore balancing, ovvero di compensazione delle tensioni regionali con l’obiettivo di porle al servizio degli interessi americani.

Una simile strategia non suddivide stabilmente gli attori regionali in alleati ed avversari, ma fa leva sulle temporanee convergenze degli uni e degli altri con gli interessi di Washington.

L’accordo nucleare con l’Iran ha rappresentato un ulteriore modo per districare gli Usa dai conflitti regionali al fine di concentrare altrove la macchina bellica americana. Lungi dal preludere a un’alleanza stabile con Teheran, tale accordo non ha impedito alla Casa Bianca di sostenere gli avversari dell’Iran in Siria e nello Yemen.

Invece di dispiegare ingenti forze sul terreno, la strategia dell’offshore balancing prevede di addestrare ed armare truppe di attori statuali e non-statuali della regione, per permettere loro di “fare le veci” degli Stati Uniti con l’aiuto dell’aviazione e delle forze speciali americane.

Tale strategia ha però mostrato tutti i suoi limiti. In Siria Washington non solo sostiene gruppi ora in lotta fra loro, ma si è anche alienata alleati regionali come Turchia ed Arabia Saudita. E ciò senza riuscire a trovare convergenze significative con un avversario come la Russia (la tregua negoziata in questi giorni con Mosca appare fragile e di difficile implementazione).

Nel vicino Iraq, la battaglia contro l’Isis prosegue con grande lentezza nonostante recenti successi come quelli di Sinjar e Ramadi. E mentre gli esperti militari del Pentagono già prevedono che la riconquista di Mosul non avverrà sotto la presente amministrazione, a Riyadh ed Ankara c’è chi attende l’insediamento del nuovo presidente alla Casa Bianca per realizzare i propri piani regionali.

Ma se la strategia dell’attuale amministrazione ha prodotto cattivi risultati in Medio Oriente, l’eventuale maggiore interventismo del prossimo presidente probabilmente porterebbe a conseguenze ancora peggiori.

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