Il 3 Marzo 1986 non è una data che può passare inosservata per gli amanti della musica di un certo livello, è anzi uno spartiacque di genere tra quello che il mondo del ‘metal’ era stato in potenza fino a quel momento e ciò che poi è diventato. Il terzo disco in studio dei Metallica ha il merito, più di tanti altri, di avere consegnato ai mercati e al pubblico che conta una narrazione fino a quel momento abbastanza di nicchia, concentrando in poco più di 54 minuti un pezzo di storia che viene difficile anche solo raccontare e racchiudere in poche parole.

“Master Of Puppets” non è un disco, bensì è ‘il disco’: il manifesto artistico di un gruppo che aveva sì fatto già parlare di sé ma mai aveva calcato la mano come con queste 8 tracce, portando al livello di sublime poesia l’irriverenza e l’immediatezza del punk mista alla corposità e alla cupezza dell’heavy metal: senza per questo disdegnare i fraseggi ‘classici’ vero marchio di fabbrica dei four horsemen e – primus inter pares – di quel Cliff Burton tragicamente scomparso pochi mesi dopo a soli 24 anni dopo avere rivoluzionato (con una manciata di canzoni) l’approccio al basso elettrico e, più in generale, alla composizione dettando nuovi standard per la musica più dura e pura. Un piatto servito freddo come la vendetta, base di una torta piena ricolma anche di momenti più intimisti e riflessivi: croce e delizia di un gruppo che negli anni a venire avrebbe pagato in prima persona i continui paragoni retroattivi coi bei tempi che furono, avendo l’unica colpa – forse – di avere dato alle stampe uno dei 20 dischi più importanti e copiati degli ultimi 50 anni.

Il percorso artistico dei Metallica, che pure proseguirà 2 anni dopo con l’altra pietra miliare “…And Justice For All” vivrà poi di continue sterzate, scelte alle volte incomprensibili (“St. Anger”), parziali retromarce (l’ultimo “Death Magnetic”) e scivoloni quasi comici (vedi Napster): sempre rincorrendo affannosamente la stima e la considerazione dei fan della primissima ora che, un po’ ciechi e un po’ sordi, bussavano e bussano chiedendo una seconda epifania, il più possibile uguale a questa.

“Master Of Puppets”, che non ha bisogno certo ora (tantomeno oggi) di essere sciorinato una seconda volta ai più giovani (che hanno la fortuna o la sfiga di ascolarlo su Spotify) è anche, se volete, una storia agrodolce: la parabola di vita, ovvero di una band inaffondabile, che non avendo nulla di meglio da fare che sfornare un prodotto perfetto sotto tutti i punti di vista, ha al contempo saziato la fame di tanti detrattori occasionali che, già pronti con tanto di sacco a pelo dietro l’angolo, non avrebbero potuto chiedere di meglio per riempirsi la bocca di tanti di quei luoghi comuni che la metà della metà sarebbero bastati. Una bile ed un odio riscontrabili pressochè ovunque, braccio armato della stupidità e della cecità di chi, in musica come nella vita, è incapace di guardare avanti: senza necessariamente sentirsi in dovere di rendere conto ad un’idea di fedeltà e appartenenza che da nessuna parte risiede, se non nella testa di chi si ostina a crederci. Se proprio comunque volete farvi un regalo, oggi in occasione di questa speciale ricorrenza, io vi propongo di acquistarlo di nuovo, scartarlo, inserirlo nel vostro lettore o in macchina e rovinarlo ascoltandolo allo sfinimento come accadde a me che, ormai da una quindicina di anni, lo conservo – in cima a tanti altri – gelosamente graffiato e utilizzabile solo a tratti: magari i migliori. Un po’ come i Metallica.

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