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Nanni Moretti incolla su un grande foglio bianco titoli di giornali. Titoli diversi di testate diverse, ma articoli uguali. I giornali sono uguali, dice lui nel film Aprile. Uguali, cioè omogenei, sovrapponibili, ugualmente omissivi su una vicenda, parimenti entusiasti su un’altra. Il giornalismo ha la responsabilità di illustrare la realtà, conoscerla anzitutto e indagarla anche nelle sue pieghe più segrete e inconfessabili.

Il giornalista deve dire la verità, o almeno quel che a lui appare come verità. Ma può – se è disonesto – anche tacerla, ridurla, ometterla. E addirittura trasformarla. Dare per vero il falso o accreditare l’opposto: costruire su una suggestione la realtà. Il vizio tragico dell’informazione è che essa faccia rima con manipolazione. L’unica possibilità per contrastare la possibile manomissione della realtà è che le fonti di informazione siano plurime, abbiano distinte capacità di analisi e di critica, distinti editori, differenti interessi culturali e politici. Come ci insegna Moretti non è il numero di giornali in vendita ad alzare il livello e la qualità delle notizie che si offrono.

Con internet la faccenda si complica ancora di più. Nell’età della notizia istantanea, della comunicazione istantanea, del riscontro istantaneo, il mercato delle notizie poggia apparentemente su un numero indefinito di fonti. Ma la quantità di esse non equivale a fornire a ciascuna la medesima attendibilità. La crescita esponenziale delle notizie farlocche sulle quali si incardinano migliaia di commenti e prese di posizione nasce dall’assoluta incontrollabilità delle fonti. Perciò quelle più accreditate avranno il privilegio di costituire lo scheletro sul quale poggerà la prevalente narrazione quotidiana. I fatti riferiti, e per come vengono riferiti, saranno oggetto dei commenti dei cittadini, dei tanti come voi che su una vicenda esprimono, in modo equilibrato o rozzo, con prudenza o sicumera, il proprio giudizio.

Di oggi l’ufficializzazione della fusione per incorporazione dei gruppi Espresso e Itedi, editrici di La Repubblica, La Stampa e Secolo XIX. Due dei tre principali gruppi editoriali del Paese si fondono, e il terzo, Rcs, sarà detenuto ancora per qualche mese da uno dei due protagonisti della fusione.

Già ora, già oggi è evidente che i commenti e i giudizi principali su questa grande operazione industriale e culturale provengono da giornalisti che sono dipendenti delle società protagoniste della vicenda. Esiste come dato oggettivo un’alterazione della percezione obbligata dallo status di chi racconta una vicenda che lo riguarda. Dirà tutto ciò che pensa? Oppure, come è più plausibile, non espliciterà le proprie riserve? O anche, come forse è sicuro, sarà chiamato a riferire di questo fatto e a commentarlo colui che più è vicino per sentimento o interesse alla voce del padrone?

E se l’industria editoriale diviene un oligopolio, un potere spartito tra pochi, che ne sarà della qualità dell’informazione, della sua libertà? E se aggiungiamo che nelle mani del governo c’è il cosiddetto fondo dell’editoria, soldi da assegnare alle imprese che fanno comunicazione, quanto potrà essere grande il rischio di un condizionamento che si abbatterà in modo così pesante sulla fabbrica delle notizie, se il fabbricante è uno solo o quasi?

 

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