Non esiste risveglio senza un po’ di sano stretching e un saluto alla giornata che inizia. “Ma” ha educato bene il suo piccolo Jack, colorandogli un mondo di immaginazione e fantasia. È questo l’unico modo in cui il bimbo può percepire il cielo in una stanza, perché da essa non è mai uscito. Portati in inganno dalla “normalità” con cui la macchina da presa ci fa percepire ciò che invece è tutt’altro che normale, osserviamo la ritualità quotidiana di “Ma” e il suo Jack come se Room fosse un film qualunque, che appunto inizia in una stanza.  Ben presto ci rendiamo conto che il nuovo film di Lenny Abrahamson – che era candidato come miglior regista al premio Oscar – è il racconto di un incubo vissuto ad occhi aperti. Una madre giovane e suo figlio di 6 anni sono prigionieri in una stanza – la “Room” appunto – da quando la donna ha partorito. A rinchiuderle è stato il padre di Jack, un criminale possessivo e paranoico che sette anni prima ha rapito la giovane donna e continua ad abusare di lei “in cattività”.

Egli è l’unico essere umano, ad eccezione della madre, con cui Jack si sia mai relazionato nella sua innaturale reclusione: quando l’uomo entra nella Room – il nome “proprio” con cui il bimbo denomina la stanza/universo – egli si nasconde nell’armadio e lo spia dal buco della serratura. La macchina da presa spesso è in sua soggettiva, facendoci apparire immenso ed articolato uno spazio in realtà claustrofobico.

Già dal suo esordio Garage (2007) vincitore del Festival di Torino, l’irlandese Abrahamson classe 1966, aveva scelto gli spazi angusti a proprio territorio d’elezione narrativa. Nel film ancora girato in patria, nella provincia rurale e ancestrale, mostra la difficoltà dei rapporti umani alle prese con un “outside” inquietante. Non dissimile era il senso di “nascondimento/protezione” della maschera della rockstar Frank, in cui cela il protagonista Michael Fassbender dell’omonimo film, il più recente del regista di Dublino e fino a Room il più noto. Con questo nuovo lavoro – candidato all’Oscar 2016 come miglior film -.Abrahamson raggiunge un livello di maturità registi a che ne rivelano, finalmente, il talento cristallino, coltivato con studi specifici seguenti a una laurea in filosofia presso il prestigioso Trinity College.

Una notazione, questa, assai rilevante nel giustificare la profondità espressiva delle sue pellicole, sempre elaborate sul filo di un ragionamento sul precario e traumatico equilibrio tra l’universo intimo e quello relazionale dell’essere umano. Room è un dispositivo metaforico perfetto a questo proposito, e l’apertura verso il mondo esterno è ottenuta esattamente come nell’atto di partorire: una conquista voluta, violenta, di potenza unica nella natura della vita. A rigore di cronaca, Room si ispira liberamente al terrificante “caso Fritzl” avvenuto nella cittadina austriaca di Amstetten nel 1984 ma scoperto solo 24 anni dopo.

Per la formidabile capacità di rendere il problematico personaggio di “Ma”, la 26enne Brie Larson ha conquistato la statuetta dell’Academy. Dopo il trionfo col premio del pubblico al festival di Toronto dove era in anteprima mondiale, Room ha ricevuto numerosi consensi anche alla Festa del Cinema di Roma e ora si appresta finalmente al giudizio – che speriamo positivo – del pubblico di tutt’Italia.

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