Bisogna fare di sé dei capolavori, diceva Carmelo Bene, in maniera più o meno provocatoria. Arrivare oltre il modo. Non conosco le ragioni, forse il male umano di santificare i defunti, riscoprirli dopo la dipartita, meglio se tragica e prematura, ma se penso a un capolavoro recente mi viene in mente solo Lucio Dalla. La musica, certo, le parole, ma anche la geniale follia che ne faceva un saltimbanco, la scorrevolezza con la quale raccontava storie di fantascienza nelle sue molte vite. Tipo quella che aveva fatto il ballerino di tip tap per gli americani, non smentibile, ma poco credibile per ragioni anagrafiche. Sapeva ballare, il tip tap forse no, altrimenti ce lo avrebbe fatto vedere.

dalla 675

Cattolico, comunista, bolognese. Lucio se n’è andato 4 anni fa, dopo un concerto a Montreaux, in Svizzera. Due giorni dopo avrebbe festeggiato il compleanno a Ginvera, con gli amici più cari. Chi sia stato, nelle sue molte vite, non è possibile dirlo. Quello che resta è la ferita che ha aperto e nella quale, noi che amiamo alla follia le canzonette, ci siamo infilati in un doppio carpiato. Bobo Craxi, che di Lucio è stato a lungo amico, mi diceva qualche giorno fa che nella “sua imprevedibilità era anche contenibile”. Niente di più vero. Aveva un grande cuore, sicuramente. Mai acceso nei toni, affezionato al denaro, ma in maniera sana, molto contadina, di chi era nato povero. E a Bologna o eri figlio di un bottegaio o di soldi, tra la fine della guerra e l’inizio degli anni Cinquanta, ne vedevi davvero pochi.

Era, come tutti gli artisti, geloso del suo talento, ma generoso. Lo è stato con Francesco De Gregori, soprattutto ai tempi di Banana Republic, dopo che De Gregori di salire sul palco, dopo il processo al Pala Lido, non ne voleva sapere. Lo è stato con Ron che della musicalità che ha nella voce deve molto a Dalla, e con giovani come Luca Carboni e Samuele Bersani, che aiutò a uscire dalle osterie dov’erano confinati. Lo è stato con Gianni Morandi, quando se lo portò in tour nel periodo più buio della sua carriera. Bologna era il suo microcosmo, a parte una parentesi romana, queste erano le sue persone, la sua famiglia, non quella a cui è finita l’eredità. Soffriva Francesco Guccini, e non ne faceva mistero, perché una parte di Bologna il maestrone, bolognese di Modena, dunque molto arioso, gliel’aveva scippata.

Umane debolezze. Tutti particolari che non aggiungono proprio niente a quattro anni senza Lucio. Ma ogni volta ci piace che il suo ricordo sia più forte, che ci sia qualcuno pronto ad aggiungere l’ennesima storia, a organizzare un concerto. La voce di Lucio è qui. Come vent’anni fa era sul traghetto di Marrakech Express, con Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio. L’anno che verrà. Per noi che restiamo e non abbiamo nessun motivo per non ricordarlo, anche se spesso non aggiunge nulla. Certi che a lui piacerebbe così.

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