Era arrivato a perdere 20 chili. Dalla paura, dalla tensione e dalla rabbia non dormiva e non mangiava più. Anche la sua famiglia ne aveva risentito, quando il suo socio in affari lo aveva “avvertito”, dando fuoco all’officina, posta sotto la sua abitazione. I figli ne uscirono traumatizzati e questo, poco alla volta, lo portò a trovare il coraggio di denunciare. Questa è la storia di Vincenzo Francomano, il primo imprenditore che ha avuto il coraggio di bussare alla porta della procura distrettuale antimafia – come ha raccontato il magistrato Alessandra Dolci – e denunciare chi, in poco tempo, era riuscito a impossessarsi della sua impresa e lo aveva costretto a chiudere ogni altra sua attività che potesse fargli concorrenza. Una storia, raccontata nelle carte della recente inchiesta che ha portato in carcere i vertici della locale di ‘ndrangheta di Mariano Comense.

Fra Vincenzo Francomano e Giuseppe Olivero inizia nel cuore della Lombardia come un normale rapporto di lavoro: il primo è titolare di un’officina di carrozzeria a Villa Guardia, il secondo vende gomme a Olgiate Comasco. Passarsi i clienti è una pratica normale che avvantaggia entrambi. Nel 2006, però, Francomano propone a Oliverio di gestire la sua attività di gommista, all’interno di una nuova grande officina che stava aprendo, nonostante quest’ultimo fosse appena uscito di prigione grazie all’indulto e dopo aver scontato due anni di detenzione per traffico di stupefacenti.

E’ l’inizio della fine. Tempo pochi mesi e l’imprenditore perde completamente il controllo della sua officina, dove oramai stazionano tutto il giorno “brutte facce, avanzi di galera” e dove Oliverio si muove da padrone, al punto “da aver paura anche solo ad avvicinarmi al mio capannone”, rivelerà ai pm.

Quando, nel 2007, l’imprenditore accenna alla volontà di chiudere l’officina per tirarsi fuori da questa situazione, Oliverio ”rispose che … mi avrebbe spezzato le gambe, ovvero ammazzato”. Nel giugno dello stesso anno, tenta un’altra strada: cede un ramo d’azienda a Oliverio, che in questo modo si impossessa dell’attività praticamente a costo zero (solo rilevando i debiti e il costo del leasing dei macchinari) e pagando un affitto irrisorio per l’utilizzo del capannone.

Ben presto, però, Oliverio smette di pagare anche questo, così che nel 2011 Francomano inizia le pratiche che porteranno allo sfratto. La reazione non si fa attendere e il 14 maggio del 2012 l’officina, posta sotto la casa dove Francomano vive con la famiglia, prende fuoco. I figli ne escono traumatizzati, l’imprenditore è allo stremo e lo sfratto si blocca.

E’ il clima di continua tensione che porta il figlio maggiore di 20 anni e poi lo stesso Francomano “a chiedere l’aiuto di un altro di un altro noto criminale della zona, Vito Tagliente (gravato da numerosissimi precedenti, non solo per armi e stupefacenti, ma anche per associazione mafiosa)”, si legge nelle carte, nel momento in cui, esasperato per il perdurare del mancato pagamento dell’affitto, cerca di vendere il capannone ad Oliverio. Inutile dire che anche questa mossa non va a buon fine e che a poco gli giova la nuova “protezione”, dal momento che – scrivono gli inquirenti – “non vi è alcun “sentire comune” fra i due e, al contrario, vi è un solido legame fra Tagliente e Oliverio … derivante dalla comune appartenenza, o quanto meno vicinanza, all’organizzazione mafiosa che controlla il territorio del comasco”.

Non solo la trattativa non va in porto, ma Francomano è costretto a pagare una sorta di risarcimento, a stipulare un nuovo contratto d’affitto al ribasso, a condonare tutti gli arretrati e a chiudere il centro di revisione che aveva aperto a Villa Guardia e che faceva concorrenza all’attività di Oliverio.

Solo nel marzo del 2014, quando i carabinieri di Saronno arrestano alcune persone vicine a Oliverio, per un giro di truffe sulle revisioni delle auto, Francomano trova il coraggio di denunciare e di avviare la procedura di sfratto.

Questa inchiesta, ha osservato il pm Dolci – dimostra anche che confiscare i beni è qualcosa che fa infuriare i mafiosi ed è la strada da seguire. In questo caso, al centro delle preoccupazione della famiglia Medici (che secondo gli investigatori ha cercato di contendere a Salvatore Muscatello il comando della locale di ‘ndrangheta Mariano), c’è la villetta di Cermenate, oggi sede del “Centro studi sociali contro le mafie”. Un tempo quella era l’abitazione di Giuseppe Antonio Medici, in carcere al momento dell’inchiesta. Il fratello Francesco Salvatore, parcheggiato in macchina davanti all’abitazione, parlando con un sodale, rivela il desiderio di vendicare l’affronto e di farla saltare. L’unico motivo per cui non lo ha ancora fatto, spiega, è perché il gruppo temeva che avrebbero addossato la colpa a Giuseppe quale mandante: “io la farei arrivare sotto la strada, se dipendesse da me, hai capito? …eh, non vogliono questi, che cazzo … così volevo fare io, pure con il ristorante volevo fare così… hanno paura che accusino mio fratello”.

La famiglia Medici è una di quelle che “contano”. Già al centro dell’inchiesta Fiori della notte di San Vito, una delle prime grandi inchieste sulla ‘ndrangheta in Lombardia dei primi anni Novanta, è citata anche nell’inchiesta Infinito. Da cui emerge il rapporto, almeno di conoscenza, con l’ex senatore calabrese Franco Antonio Crinò. In un dialogo agli atti emerge che Crinò “entrò nel carcere di Opera, insieme al suo autista ‘il ciccineddu’, per far visita a due detenuti chiamati Peppe e Rocco“ ai quali portò i saluti del sodale. La sera, poi, Crinò si sarebbe recato a cena al “Re Nove” di Rescaldina, ristorante della famiglia Medici, dove Francesco Medici avrebbe chiesto al senatore di assumere sua figlia.

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