Questa non vuole essere una critica cinematografica perché non è il mio mestiere. E, a dirla tutta, benché da qualche anno sia un’attenta osservatrice dei fenomeni migratori che interessano l’area mediterranea, provo anche un po’ di timore nel pubblicare queste righe sul lavoro che ha appena vinto l’Orso d’oro a Berlino. Questi sono i pensieri di una spettatrice che solo qualche ora fa è uscita dalla sala di un cinema di Roma dopo aver visto Fuocoammare.

E voglio iniziare proprio dall’uscita della sala. Mentre tutti commentavano e ragionavano, la prima reazione che ho avuto è stata quella di canticchiare il motivetto della canzone “Fuocommare”, da cui il film di Gianfranco Rosi ha preso il titolo. E’ una musica che ti rimane addosso e che continua a risuonare nella testa anche dopo ore che esci dalla sala. Una di quelle musiche che ti si infila nelle orecchie e che ti tormenta fin quando non la riascolti. Cerco su internet, ma niente. Della canzone “Fuocoammare”, nessuna traccia. Allora chiedo direttamente a Giuseppe Fragapane, detto Pippo, uno dei personaggi del film di Rosi. Pippo è il dj di Canzonissima, trasmissione musicale che ogni giorno va in onda sulle frequenze di Radio Delta, raccogliendo richieste e dediche dei lampedusani. Ed è proprio lui, nel film, che lancia alla radio la canzone “Fuocoammare”.

Gli chiedo dove posso trovare quella canzone. Sono curiosa di conoscere il testo. E solo allora, in quel momento, scopro che forse è quella la perla nascosta che Rosi ha il merito di aver riportato alla luce. “Il testo non c’è. E’ andato perduto!” mi dice Pippo. Perduto? Come? E non c’è modo di recuperarlo? “Purtroppo, no. Comunque parlava dei bombardamenti del 1943 a Lampedusa”.

Capisco. Ma, quindi, quando nel film lanci e dedichi la canzone in radio?

“Si sente solo il pezzo strumentale. Gianfranco Rosi lo ha sentito suonare qui a Lampedusa. Gli è piaciuto. Lo abbiamo registrato. Ne abbiamo fatte diverse versioni. Pensa, ce n’è anche una jazz! Questo è un pezzo che i musicisti lampedusani suonano da sempre. E che si balla! Mio nonno, Antonino Russo, ha novant’anni ed uno dei musicisti più anziani dell’isola. Ma nessuno si ricorda le parole. Quella volta, nel ’43, mio nonno stava a Ponente, una zona dell’isola. All’improvviso, da laggiù, ha visto un fuoco proprio nel porto di Lampedusa. A quel tempo non c’era elettricità. Si stava al buio. E quel fuoco illuminava l’isola”

Chi focu a mmari ca c’è stasira. Che fuoco a mare che c’è stasera!

Era la frase che ripetevano i lampedusani quando, in quel lontano ’43, la nave italiana “Maddalena” fu bombardata e prese fuoco nel porto. Una frase ripetuta talmente tante volte che alla fine è diventata canzone popolare. E di cui oggi, dopo 73 anni, sopravvivono solo poche parole. Chi focu a mmari ca c’è stasira.

“Registrare la canzone è stato restituire un pezzo alla memoria dell’isola” mi spiega Giuseppe. Restituire all’isola. E a proposito del film, Giuseppe è stato uno dei pochi abitanti di Lampedusa ad avere la fortuna di assistere alla proiezione a Berlino e alla prima romana. Tutti gli altri, invece, dovranno aspettare almeno aprile, se non addirittura maggio “quando tornerà la bella stagione e si potrà fare una proiezione pubblica nelle strade dell’isola. Perché oggi qui non ci sono cinema!” mi spiega. “Anni fa ce ne erano due, di cui uno in realtà era una sala parrocchiale. Oggi non abbiamo neanche quelle sale!”. Assurdo, penso io. Tutto il mondo titola “Lampedusa vince al festival di Berlino” e Lampedusa non ha neanche un cinema!

Da spettatrice, sul film documentario, non riesco a dare un giudizio netto perché, secondo me, netto non è il lavoro. Non posso affermare che non mi sia piaciuto né che mi sia piaciuto. La canzone “Fuocoammare” è strepitosa, un prezioso documento storico. Il piccolo Samuele è geniale, di un’ironia da spezzare il fiato che diventa magistrale nel dialogo con il dottor Pietro Bartolo dove, attraverso gesti adulti che provengono da un corpo di bambino, mette a nudo paure e ansie. Soprattutto quelle di non essere all’altezza di stereotipi che stanno stretti. Come italiani, chissà se anche come lampedusani. Eppure Samuele sembra essere quella parte più infantile dell’essere umano che si ritrova a sperimentare il suo lato più perfido nei tiri di fionda contro chi non può difendersi e che invece, alla fine, attraverso gesti goffi e nuovi, riscopre la tenerezza.

Il racconto si svolge spesso attraverso immagini forse troppo stereotipate del sud Italia e sarà interessante sapere cosa ne penseranno i lampedusani quando vedranno il film. Ma, al tempo stesso, quanti di noi non hanno rivisto i gesti maniacali di ogni nonna nella scena della signora anziana che “riassetta” il letto?

Nel racconto del fenomeno migratorio, invece, nascono i dubbi maggiori sul film. Era proprio quella l’unica via per narrare, vivi o morti, i corpi migranti? Certo, l’immagine dei tre della Marina Militare, ritratti come statue immobili, impotenti davanti ai sacchi neri dei cadaveri recuperati durante un naufragio è epica e mostra la mortale assurdità delle politiche europee.

A restituire soggettività ai corpi migranti c’è solo la preghiera cantata dei nigeriani. E’ una memoria migrante contemporanea che può suonare come un monito. Tutto sta a saperla ascoltare perché è in quelle parole che è già scritto, in parte, ciò che sarà l’Europa. Quella preghiera, di colpo, proietta lo spettatore verso un futuro prossimo in cui figli e nipoti di questa generazione, che è riuscita ad approdare, ricorderanno.

Chi focu a mmari ca c’è stasira. 

Il piccolo Samuele gioca sparando a nemici immaginari. E io mi chiedo se siete proprio sicuri di volere un mediterraneo così militarizzato.

(In questa foto che Giuseppe Fragapane mi ha regalato sono ritratti lui, il nonno Antonino Russo e Gianfranco Rosi mentre suonano “Fuocoammare”)

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