Sono usciti pochi giorni fa i risultati dell’Erc Consolidator Grant 2015. La nostra ministra Stefania Giannini si è complimentata con i vincitori e soprattutto le vincitrici italiane (in totale 30 su circa 300). Tra queste, c’è anche Roberta D’Alessandro, 42 anni, che dopo una delle cosiddette “lauree inutili” in linguistica presso l’Università dell’Aquila è da sedici anni all’estero e da nove in Olanda, presso l’università di Leiden, ove è professore dall’età di 33 anni. Roberta ha portato alla sua istituzione olandese un finanziamento di due milioni di euro erogato dall’Erc (European Research Council). Non avendo mai nascosto il suo desiderio di tornare in Italia, ha partecipato in modo infruttuoso a diversi concorsi nell’università italiana.

Dopo aver letto l’articolo di Marco Viola sul post della ministra Giannini, si è tolta su Facebook qualche “sassolino nella scarpa” precisando alla ministra che il suo finanziamento è destinato al paese che la ospita, ovvero l’Olanda, e che non ritiene giusto di essere conteggiata tra i vincitori italiani. Il post, scritto forse con un po’ di leggerezza, è stato condiviso da migliaia di persone e Roberta è stata intervistata da diversi quotidiani italiani.

Ministra, la prego di non vantarsi dei miei risultati. La mia ERC e quella del collega Francesco Berto sono olandesi,…

Pubblicato da Roberta D’Alessandro su Sabato 13 febbraio 2016

Vediamo qualche fatto.

Fatto numero Uno: Roberta (come gli altri 16 vincitori di nazionalità italiana che hanno ottenuto il grant in un’università estera) ha svolto il suo percorso di studio in Italia. Per cui, il sistema educativo italiano non è affatto male come dipinto da alcuni mezzi d’informazione. Il numero di vincitori di nazionalità italiana (30) è in linea quelli di Francia (30) e Regno Unito (32). In effetti, non è poi così sbagliato che la nostra ministra si complimenti con Roberta in quanto italiana laureata in Italia.

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Fatto numero Due: è comune che un ricercatore cambi paese. Il problema è che in Italia non ci viene nessuno. Il sostanziale pareggio di prima con il Regno Unito (30-32) diventa una disfatta modello Italia-Inghilterra al Sei Nazioni di Rugby (13-67). Di queste cose ne avevamo discusso già un anno fa e l’andamento dei grafici è lo stesso ogni volta che escono i risultati di un bando Erc.

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Fatto numero Tre: la mancanza di finanziamenti in Italia è la causa della scarsa competitività. Il paradosso italiano è che il nostro paese finanzia con circa 90 milioni di euro (in tre anni) la ricerca delle proprie università, mentre ne “regala” circa 300 milioni ogni anno agli altri Stati europei. Nella valutazione dell’Erc ci sono esplicitamente i finanziamenti precedentemente ricevuti. E questo è anche logico: chi affiderebbe mai 2 milioni di euro a un ricercatore che non ne ha mai potuti gestire centomila in modo autonomo? Da un ministro, oltre a qualche post su Facebook, mi aspetterei delle azioni concrete. Quali?

Azione numero Uno: non si fanno le nozze con i fichi secchi. Senza finanziamenti per la ricerca e senza pagare adeguatamente i ricercatori, non è possibile invertire la tendenza. Non è un caso che i paesi che attraggono più vincitori (e quindi, brutalmente, soldi) siano proprio quelli che investono di più in ricerca. Ha poco senso avere ricercatori in Italia senza fondi. Una quota minima deve essere garantita a tutti. Il vincitore dell’Erc non può spuntare in un deserto. La mancanza di strumentazione e investimenti da parte dell’istituzione ospitante significa partire nella valutazione con un handicap. La presenza di fondi di ricerca è invece un vantaggio. Nella competizione, gli italiani in Italia partono in ultima fila, indipendentemente dal loro merito.

Azione numero Due: oltre ai vincitori, ci sono quelli che arrivati alla “finale” della selezione (il colloquio a Bruxelles), non prendono il finanziamento ma ricevono una valutazione positiva sul progetto. Molti Stati europei (Svizzera, Norvegia, Spagna) sostengono questi progetti, perché sanno che sono quelli che se supportati adeguatamente potrebbero essere quelli dei futuri vincitori. Tanti vincitori sono persone che hanno fallito di poco l’anno prima. L’investimento sui finalisti è sicuramente remunerativo: la loro votazione crescerebbe semplicemente finanziandoli. Il sistema di valutazione dell’Erc costa un sacco di soldi e consente di trasferire i report alle agenzie nazionali. Perché non sfruttarlo anziché ripartire sempre da zero? Preparare un progetto Erc è un investimento enorme di tempo. Se ci fosse un “premio” (es. finanziamento alla ricerca) come in altri Stati, molti ricercatori italiani sarebbero più invogliati nel presentare domande e aumenterebbero anche i vincitori.

Azione numero Tre: anche se imperfetto, il sistema di valutazione dell’Erc è condiviso da tutti gli Stati europei. I valutatori conoscono i cosiddetti “indici bibliometrici” dei candidati (numero di pubblicazioni, numero di citazioni, H-Index etc.), ma non li impiegano in modo automatico come in Italia (es. mediane Asn, Vqr etc.). Il giudizio è sempre tramite una revisione tra pari. Perché non prendere spunto da lì?

Insomma, per evitare altri casi come quello di Roberta (alla quale vanno i miei più sentiti complimenti) basterebbe poco. Semplicemente guardare all’esperienza degli altri paesi europei: sì ai finanziamenti adeguati e no alle valutazioni numerologiche come quelle che impazzano adesso in Italia causando la giusta protesta dei docenti. Le azioni concrete devono essere intraprese prima possibile. Altrimenti, i ben 13 vincitori in Italia di grant Erc su 300 totali potrebbero diventare un lontano ricordo nei prossimi bandi.

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