Serve una discussione laica e pacata sull’utero in affitto. Senza l’intervento dei soliti arnesi clerico-conservatori e l’agitarsi dei “livellatori” per i quali tutto è uguale a tutto e l’unico slogan è “pago le tasse e quindi…”. Non sarà probabilmente la rissa in Senato a favorire questo sforzo di analisi e razionalità – che pure andrà fatto in altre sedi e con altri protagonisti – ma intanto le settimane trascorse hanno fatto emergere alcuni punti.

1. La netta maggioranza degli italiani è contraria all’adozione del figliastro nelle coppie dello stesso sesso. I dati sono inequivocabili. Si va dal 73 per cento di no della rilevazione Ixè per Agorà al 55 per cento del sondaggio Ipsos. I favorevoli raggiungono al massimo il 38 per cento. E qui si apre una prima riflessione. Si è sempre detto dagli anni Settanta a oggi che gli italiani sono più avanti della classe politica e dei diktat ecclesiastici. E così è stato ed è. Tanto è vero che l’opinione pubblica si pronuncia in maniera totalmente favorevole nei confronti delle unioni gay. L’opinione pubblica boccia invece l’adozione fatta dal partner del genitore gay. Considerare improvvisamente stupidi o disinformati gli italiani su questo punto appare arduo.

2. Si è capito che non è affatto vero che i bambini non adottati sarebbero condannati all’orfanotrofio in caso di morte del genitore. Un affido specifico può garantirli tranquillamente. Il bambino non è meno amato se è curato, accudito e allevato dal padre e dallo “zio” partner del padre o dalla “zia” partner della madre. L’insistenza sulla terminologia “due papà” o “due mamme” è una scelta politico-ideologica su cui è legittimo che la discussione rimanga aperta. Non è una verità inappellabile.

3. La maggioranza degli italiani ha capito che l’adozione del figliastro (se non specificata come adozione del “figlio che il genitore ha avuto da una relazione precedente”) apre una strada diretta all’utero in affitto. Basta aprire i giornali per leggere quotidianamente dichiarazioni di coppie, che annunciano di volersi recare subito a Kiev (o in Canada o dove che sia). In questo senso ripetere che l’utero in affitto è già vietato dalla legge 40 è una scusa pietosa, perché il divieto è facilmente aggirabile e concretamente aggirato. Una volta portato il bambino in Italia, i tribunali sono pronti a concedere lo status di genitore alla coppia che ha violato la legge.

4. Il divieto dell’utero in affitto è peraltro aggirato egualmente da coppie eterosessuali e omosessuali.

Dunque varrebbe la pena di concentrarsi sul nocciolo della questione, che non può essere liquidata sbrigativamente come evoluzione della cultura e del concetto di famiglia. L’opinione pubblica trasversale, laica e pacatamente riflessiva, non ha nessuna visione della famiglia come presepe del Mulino bianco. Ha perfettamente elaborato ormai la complessità degli orientamenti sessuali e il diritto di ciascun individuo di crearsi una partnership affettiva e solidale a sua misura.

5. Colpisce la censura mediatica applicata in queste settimane in Italia a un’iniziativa del tutto laica come la recente riunione presso il Parlamento francese di personalità laiche e femministe, a partire dalla filosofa e scrittrice socialista Sylviane Agacinski, che ha portato alla Carta di Parigi sottoscritta da associazioni internazionali di donne, in cui si denuncia la pratica globale di industrializzazione della riproduzione per conto terzi. Con concetti su cui è legittimo aprire una discussione seria. Ecco un passaggio significativo: “Lungi dall’essere un gesto individuale, questa pratica sociale è realizzata da imprese che si occupano di riproduzione umana, in un sistema organizzato di produzione, che comprende cliniche, medici, avvocati, agenzie ecc. Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione in modo che la gravidanza e il parto diventino delle procedure funzionali,dotate di un valore d’uso e di un valore di scambio, e si iscrivano nella cornice della globalizzazione dei mercati che hanno per oggetto il corpo umano”.

6. E’ singolare che venga prestata così poca attenzione ai contratti, che formalizzano questa pratica. Contratti che impongono alla donna ingaggiata di abortire se si presentano difficoltà nella formazione del feto e che autorizzano i “committenti” a rifiutare un bambino nato con anomalie. In altre parole di rifiutare il prodotto.

7. Michela Murgia, una scrittrice pur favorevole alla regolamentazione della pratica, ammette onestamente che la “legislazione americana degli stati in cui è consentita la ‘Gestazione per altri’ non offre alcuna garanzia che questo non accada, a partire dal fatto che consente cose come la scelta del sesso e soprattutto perché afferma che il figlio appartiene ai committenti sin dall’impianto nell’utero della gestante, ridotta in questo modo a mero contenitore”. Al contrario, la scrittrice vorrebbe che la gestante avesse il diritto di rifiutare di abortire e persino di “decidere alla nascita di tenersi il bambino come proprio”. Altrimenti la donna finisce per essere considerata un contenitore.
Ma è esattamente questo che l’industrializzazione della gestazione esige. Ed è il nucleo fondante del contratto. Pretendere che i committenti rinuncino al diritto di decidere su ciò, che considerano un “prodotto” acquistato, è la negazione radicale di tutta l’operazione .

8. In ultima analisi è giusto che chiunque si pronunci in piena scienza e coscienza sul significato etico di utilizzare – per contratto comunque mascherato, anche da rimborso – un ventre di donna come contenitore per la nascita di un bambino.

9. Nel caso delle coppie dello stesso sesso si pone un interrogativo ulteriore, a prescindere dalle pratiche di fecondazione: è giusto dare vita ad un bambino, togliendogli a priori la madre o il padre?

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