66mo Festival della Canzone Italiana, Terza serata

Solo seduto su una panchina del porto vedo le navi partir. Sono le prime ore dell’alba. Sono qui per tre motivi. Anzi, quattro. È tornato fuori il sole. Se devo saltare il sonno tanto vale farlo al mare. Forse è il caso che eviti di tornare in Sala Stampa, che un po’ di gente mi sta cercando. Vincenzo di Reset.

Ieri è stata la giornata delle eliminazioni, o meglio, in cui si è profilato il quintetto di probabili eliminati. Tutti abbastanza prevedibili, tranne i Dear Jack, endorsati da Rtl 102,5 e da qualche collega (mio) di giro. La mattinata di ieri era iniziata al mare, come oggi, prima che arrivasse la pioggia. Ho deciso che era il caso di provare a raccontare Sanremo guardandolo dal punto di vista dei cantanti in gara.

Così sono andato in uno dei soliti alberghi, per incontrare Annalisa. Strada facendo ho incontrato Andrea Rosi, presidente della Sony. Ora, per intendersi, la Sony ha qui diversi artisti, di cui non è che io stia, in genere, scrivendo meraviglie. Tipo Lorenzo Fragola e Rocco Hunt, per capirsi. Rosi è però persona interessata al confronto. Già in passato mi è capitato di scambiarci quattro chiacchiere. Quattro chiacchiere, direi qualcuna di più, diciamo qualche ora nel suo studio, a parlare di musica. Perché da appassionati, con ruoli diversi, di musica si dovrebbe parlare. E anche ieri, lì sul lungomare, abbiamo parlato di musica. Ci si è confrontati, scambiando pareri. Questi sono momenti che riconciliano con questo lavoro, il confronto.

Poi sono arrivato all’albergo dove si trova Annalisa. Ora, io non faccio il cantante. Quindi in questi giorni sono paragonabile a Leonardo Di Caprio sul finale del film che gli procurerà l’Oscar senza avere un briciolo del suo sex appeal. Sono devastato. Annalisa, invece, sembra appena tornata da un mese passato in una Spa. Bella e tranquilla, in splendida forma. A vederla dentro la televisione, non scopro nulla, sembra quasi fredda. Invece chiacchierare con lei non implica sforzi che, in questi giorni, non mi potrei permettere. Mi dice che ha deciso di portare questa canzone, un po’ anomala per il suo cammino musicale fatto sin qui, proprio per mettersi alla prova, perché sta cercando di uscire sempre più come cantautrice. Così si vede, una cantautrice. E se questo è il primo passo, ben vengano gli altri. La scelta di America nella serata delle cover, una canzone in cui la Nannini celebra l’autoerotismo femminile, così come il famoso verso della puttana nel testo sanremese, indicano la voglia di mostrarci qualcosa di diverso, sorprendente. Ben felici di accompagnare da cronisti questa metamorfosi. Ci salutiamo, non prima di essere entrato in possesso di un suo autografo per mia figlia grande (a mio figlio, il mediano ho portato quello dei Dear Jack, ottenuto grazie a una collega di Topolino). Comunque, per me, Annalisa meriterebbe il podio, sia messo agli atti.

La faccenda dell’autoerotismo, in qualche modo, torna con l’incontro successivo. Elio e le Storie Tese presentano il loro nuovo album, Figgatta de Blanc. A colazione. Nel senso italiano del termine. Qui gli artisti e chi lavora al Festival vanno a dormire tardissimo, quindi a metà mattinata ci si vede per prendere insieme caffè e scambiare quattro chiacchiere. Che in realtà, ancora una volta, sono molte di più. Dell’album vi parlerò in seguito, ma l’ora passata con loro sarebbe da riportare parola per parola, tipo verbale. Dal fatto che Rocco Tanica, dentro la band ma fuori dalla band, rivendica di essere il Raoul Casadei degli Elio, presente, ma in realtà a casa (Casadei presumibilmente a controllare se sono arrivati tutti i bonifici), alla genesi del titolo dell’album, chiaro omaggio ai Police di Reggatta de blanc. Volevano da principio chiamarlo Merda. Però sembrava brutto. Quindi hanno deciso di ammorbidire e sono passati a Merdata, poi a Figa, a Figata, a Figatta, e infine a Figgatta de blanc.

Poi c’è stato un attacco violento alla pizzica e alla taranta, evocate per l’assenza nell’album di Stewart Copeland dei Police, troppo impegnato, appunto, in quelle faccende. Si è parlato, seriamente, della presenza di Francesco di Giacomo, scomparso frontaman del Banco del Mutuo Soccorso, qui con un inedito, e poi di mille altre cose. Tra le quali il motivo per cui ho usato l’autoerotismo come gancio tra i miei due incontri mattutini. Da una parte c’era America, dall’altra Elio e le Storie Tese. Cosa sarebbe? Semplice, un cofanetto in edizione limitata, di cui Elio ha fatto dono a una parte della stampa, di un massaggiatore per parti intime Lelo, in altre parole un vibratore. Che si muove col movimento, come certi orologi da polso che si ricaricano da soli, o riconoscendo il suono della voce. Vi lascio liberi di pensare a tutto quello che Elio, Faso e compagnia cantante può aver detto in proposito.

Via, altro giro, altro regalo. La giornata è proseguita tra incontri volanti, come quello con l’amico Ruggeri, che ha qualche anno più di me, ma che ha un’energia che io, temo, non avevo a dodici anni, rocker dentro. Mi dice che, nonostante il frullatore si sta divertendo, e se lo avete visto mangiarsi il palco c’è da credergli. Mi dice anche, stasera, finito al Dopofestival, raggiungici per una bicchierata e io lo guardo con la faccia di chi ha messo insieme otto ore di sonno in una settimana. Poi mi ricordo, è stato punk prima di me. Si avvicina la finale, quindi Sanremo è piena di gente come non capitava da anni. Si scambiano chiacchiere con addetti ai lavori che magari non si vedono da anni. Ci si interroga sulla presenza di gente come Malgioglio o Masciarelli. Si corre. Non si mangia.

Faccio in tempo a farmi dire da Cristina D’Avena, superospite stasera, che la versione di Goldrake degli Zero Assoluto è molto bella, e se lo dice la regina delle sigle dei cartoni animati c’è da crederle. Ecco, io da grande voglio fare gli Zero Assoluto. Matteo e Thomas, che incontro piu volte nei miei giri, sono sereni e pacifici. Sempre sorridenti. Oggi approfittano del fatto di incontrarci per una breve pausa, due chiacchiere senza impegno. Prendono fiato, ma non rifiutano un saluto ai fan, un selfie, un sorriso. Bravi, così si fa.

Chi pure sorride sempre e durante il Dopofestival dimostrerà di avere buon senso dell’umorismo, è Irene Fornaciari. Lei è qui con una canzone importante, che affronta un tema impegnativo. E lo fa con serenità e understatement. Sa di essere in una posizione delicata, ma ci scherza su. Vuole proporre il suo progetto discografico, arrivato dopo quattro anni di lavoro e sa che l’Ariston è la più importante vetrina a disposizione. Sa anche di avere un pregiudizio da ribaltare, e ha deciso di farlo con la musica. A me, lo dico senza filtri, come sempre, sembra che Irene meriti un ascolto. Senza pregiudizi, appunto. Fidatevi.

Nel mentre, per la cronaca, la Signora comincia a cercarmi. Non direttamente, ma conto terzi. È uscito il mio pezzo sull’ospitata di Elisa, era prevedibile. Passo poco tempo in sala stampa, mi muovo a zig zag, come Fidel Castro ho mandato in giro per Sanremo alcuni miei sosia. Un paio da ore non rispondono al telefono.

Inizia la serata, e la nostra, perché oramai è nostra, Chiara Dello Iacovo conquista il secondo posto e il Premio della critica Sala Lucio Dalla. Lei di strada ne farà molta, fidatevi. Questo il suo messaggino notturno per noi.
“Ci sarebbero tanti dettagli da evidenziare. Troppi. Ma sai che ti dico? Che quello che voglio ricordare con gelosia è come diavolo si muovevano le dita di Morgan sul basso stasera allo Showcase a Casa Sanremo, come zompettava Andy coi suoi pantaloni azzurri psichedelici. I Bluvertigo, su un palchetto di due metri per quattro, stasera mi hanno fatto piangere. Sarà stato anche lo scarico della tensione della serata, sarà stata una passeggera presa di coscienza del presente, ma mi han fatto piangere: perché quello era fare musica. Eppure a Sanremo rischiano l’eliminazione. Quindi al diavolo le classifiche, i premi, i voti e tutti i loro allegati: la musica è necessità. È pancia. È franchezza sgombera. Ed io sono felice, perché in questi giorni ho capito quante persone ci siano, disposte ad amarmi partendo da quello che creo. E domani torno a prendermi le coccole della sala stampa. Un bacio amico, un bacio”.

Della serata non si parla qui, né del Dopofestival. Posso dire che l’esperienza con Nicola Savino, la Gialappa’s, il maestro Vittorio Cosma, gli autori Giovanni Benincasa, Lucio Wilson e Giorgio Cappozzo e un manipolo di giovani colleghi bravi e simpatici, da Grazia Sambruna a Valerio Palmieri, passando per Ildo Damiani e Mattia Marzi, è stata un buon viatico per sopravvivere qui, in questi giorni. E possiamo dire che lo chignon alla Busta Rhymes mi dona dannatamente.

Finito lo show, avendo io una certa allure da vecchio che conosce le cose del mondo da difendere, decido di portare alcuni dei colleghi, cui si aggiungono Silvia Danielli e Filippo Ferrari di Rolling Stone, a conoscere la Sanremo della notte. Tanto sono già le quattro, mica vorremo andare a dormire. In realtà andiamo come tutti gli addetti ai lavori nella piazzetta sopra il porto, dove ci sono i locali aperti. Un Long Island a stomaco vuoto (ho preso giusto un Crapy Mc Bacon, in giornata, e l’ho mangiato davanti a Red Ronnie, che poi ha chiamato Padre Amorth per farmi esorcizzare). Poi una piadina al prosciutto, alle cinque e mezzo.

Nel mentre, proprio davanti all’Ariston, prima di andare a bere, incrociamo un tizio col cappuccio. Mi ferma per un braccio. Penso alle corse a zig zag del giorno. Ai due sosia che non si trovano. Penso: è finita. Volevo almeno poter votare ancora una volta votare Enrico Ruggeri in finale, ma niente. Mi chiede: “Sei Michele Monina?”. Cazzo, penso, morire davanti all’Ariston no. Magari al Coachella, al Lollapalooza, ma non davanti all’Ariston, che magari domani Alba Parietti o Giletti devono superare la sagoma del mio cadavere fatta col gesso dalla polizia. “Sì,” dico. “Sono Vincenzo di Reset,” mi dice, “lavoro con Rocco Hunt. Cavoli, almeno adesso so che faccia hai. È stato un piacere”. Quindi non sono morto, per oggi? Non sei venuto a fare lo sporco lavoro? Ma vaffanculo, va.

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