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Molti parlano di “rom”, “zingari”, “nomadi” senza avere mai incrociato lo sguardo di essi o aver scambiato una parola amichevole. Il moto del cervello va per inerzia e luoghi comuni, infarciti di pregiudizi anche assurdi e inverosimili, diventano il riferimento della nostra verità conosciuta. Ma quante sono le menti umane, si chiedeva Primo Levi, capaci di resistere alla penetrazione dei luoghi comuni?

Non sembra essere passata molta acqua sotto i ponti dal 2007, quando furono resi pubblici i risultati di uno studio commissionato dal ministero dell’Interno nel quale emergeva che in Italia l’immagine dei rom e sinti è segnata dalla non conoscenza. Il 56% degli intervistati dichiarava di non avere la minima idea di quanti siano i rom residenti in Italia; l’84% riteneva che questi gruppi siano prevalentemente nomadi; soltanto il 24% del campione manifestava di sapere che circa la metà dei rom è di cittadinanza italiana. Il giudizio, complessivamente negativo, si è cristallizzato sino ad oggi in una certezza: “Sono il popolo meno gradito agli italiani”. Ieri come oggi il quadro sembra sconfortante: un misero 0,1% del campione preso in esame dallo studio del 2007 dimostrava una conoscenza completa di rom e sinti.

Giudichiamo senza conoscere, senza aver fatto alcuna esperienza concreta e diretta preferendo il passaparola e il tam tam ripetuto sui social. In Italia i rom rappresentano solo lo 0,23% della popolazione e sono sparsi sul territorio nazionale in maniera disordinata. Eppure essi occupano un posto preciso nella nostra geografia mentale.

Dietro alla parola rom non c’è un volto umano. C’è piuttosto il ladro, il bugiardo, il truffatore, lo storpio della pre-modernità. C’è il fantasma di una rappresentazione collettiva ferita da ossessioni che spunta fuori all’occorrenza, che ci fa sprofondare nei bassifondi delle storia per poi riemergere con le ataviche paure infantili. La definizione del termine “rom” appare una costruzione artificiale che gerarchizza scale di una umanità inferiore.

I rom, allora, più che una categoria umana rappresentano una categoria mentale, un arcaico fantasma che sopravvive al nostro interno e che iberna la nostra tolleranza. La categoria “rom” sfuma mano a mano che ci si allontana dallo “zingaro brutto, sporco e cattivo” e il “campo nomadi” è il luogo in cui è forgiata in maniera esemplare.

Il mito della “zingara rapitrice dei bambini” è il più antico e consolidato. Ciclicamente riaffiora dal nulla e nel nulla scompare. Nel Medioevo si credeva che gli ebrei rapissero i bambini cristiani per ucciderli e bere il loro sangue. Anche i vagabondi erano visti come i rapitori dei bambini che utilizzavano per la questua. La convinzione che le vite dei nostri figli siano messe a rischio da donne rom di passaggio è invece successiva e permane nel pensiero comune malgrado l’evidenza di studi scientifici smentisca l’accusa. Il più recente lavoro ha per titolo “La zingara rapitrice” e rivela come, malgrado le convinzioni comuni, nel ventennio che inizia nel 1986 e termina nel 2007, nei diversi casi di cronaca analizzati, in nessuno di essi si è verificata in Italia da parte di una donna rom una reale sottrazione di un minore.

C’è allora qualcosa di irrisolto nel nostro inconscio collettivo occidentale che sembra trovare forma in un’umanità nella quale non ci riconosciamo e sulla quale proiettiamo fobie e nevrosi. Abbiamo dunque bisogno della categoria mentale dei “rom” come valvola di sfogo per le frustrazioni che ci attanagliano così come il popolo d’Israele utilizzava il “capro espiatorio” da consegnare alla morte dopo averlo caricato del peccato collettivo.

La parola “rom” è qualcosa che trascende persone in carne e ossa. Essa è vicina a noi, è parte di noi, è dentro di noi. “Rom” vuol dire “uomo” e nel rifiutare questa categoria rigettiamo inconsciamente un frammento dell’umanità che ci appartiene. Finiamo così per ritrovarci come un’umanità “parziale” – avrebbe ripetuto Ernesto Balducci – che va completata e ricomposta con l’umanità delle alterità. La nostra umanità ha un volto policromo e se non ci riconciliamo con noi stessi i fantasmi continueranno ad abitare i nostri incubi. E le nostre nevrosi sopravviveranno a noi stessi rappresentando l’eredità che consegneremo alle generazioni che ci seguiranno

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