Pene dimezzate, tre prescrizioni e un’amara beffa per i famigliari di due operai morti: devono pagare le spese processuali. La sentenza d’appello del processo agli ex dirigenti dello stabilimento Montedison di Mantova, emessa venerdì 5 febbraio dal Tribunale di Brescia, è dura da mandar giù per le parti civili. I parenti di Guglielmo Zavattini e Sergio Roncari non si erano rassegnati e volevano che qualcuno pagasse per la morte dei due operai Montedison inseriti dalla pubblica accusa, in primo grado, fra i 73 decessi da malattie correlabili alle sostanze tossiche (amianto, diossine, benzene, stirene, butadiene, acrinlonitrile e dicloretano) lavorate fra il 1970 e il 1989 nello stabilimento chimico mantovano. La sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Mantova il 13 ottobre del 2014, però, li aveva esclusi dalle undici vittime per le quali 10 ex dirigenti del gruppo petrolchimico sono stati condannati per omicidio colposo. In appello, quindi, hanno cercato giustizia. Ma sono andati a sbattere: quando un ricorso viene perso, la procedura impone il pagamento delle spese processuali. E i giudici così hanno deciso.

All’insoddisfazione delle parti civili si aggiunge quella della pubblica accusa che voleva venisse riconosciuto anche il reato, negato in primo grado, di omissione dolosa delle cautele contro gli infortuni sul lavoro. Questo avrebbe permesso alle parti civili di ottenere risarcimenti ben maggiori di quelli (poche decine di migliaia di euro) previsti dalla sentenza di primo grado. E invece è arrivata una sfilza di riduzioni di pena anche perché, nel frattempo, sono scattate le prescrizioni dei reati per tre vittime riconosciute in primo grado. La prescrizione più grave, per le implicazioni giurisprudenziali che porta con sé, è quella relativa alla morte di Francesco Negri avvenuta in conseguenza di una leucemia mieloide acuta. Per la prima volta in Italia, infatti, un Tribunale aveva riconosciuto la correlazione fra quel tipo di leucemia e l’esposizione al benzene nei luoghi di lavoro. Ora la prescrizione complica tutto.

I legali dei 12 manager Montedison puntavano comunque alla piena assoluzione per tutti gli imputati. Anche in virtù della recente evoluzione giurisprudenziale che ha visto ribaltate sentenze di condanna per mesoteliomi da amianto. Se si esclude il manager Riccardo Rotti, condannato in primo grado ma morto già prima della sentenza, il totale delle condanne passa dai 51 anni e 2 mesi del giudizio di primo grado ai 24 anni e 4 mesi della sentenza d’appello. Nello specifico, rimanendo confermata la condanna per omicidio colposo, ecco come sono state ridotte le pene: per Giorgio Mazzanti da 5 anni a 2 anni e 2 mesi di reclusione, per Pier Giorgio Gatti da 7 anni e 6 mesi a 3 anni e 6 mesi, per Paolo Morrione da 5 anni e 6 mesi a 2 anni e 10 mesi, per Andrea Mattiussi da 4 anni e 3 mesi a 2 anni e 6 mesi, per Gianluigi Diaz da 4 anni e 6 mesi a 2 anni e 6 mesi, per Amleto Cirocco da 8 anni e 10 mesi a 3 anni e 6 mesi, per Gaetano Fabbri da 7 anni e 8 mesi a 3 anni e 2 mesi, per Gianni Paglia da 5 anni e 7 mesi a 2 anni e 6 mesi e per Francesco Ziglioli da 2 anni e 4 mesi a 1 anno e 8 mesi.

Il processo è stato lungo, faticoso e ricco di colpi di scena. La prima udienza è dell’11 gennaio 2011, ma la vicenda giudiziaria prende il via nel 2000. Due gli spunti che fanno partire l’inchiesta: il primo è lo studio epidemiologico di Paolo Ricci dell’Asl di Mantova, che riscontra un numero più alto di certi tipi di tumore, correlabili scientificamente all’esposizione a certe sostanze lavorate nel petrolchimico di Mantova, Montedison, nella zona intorno agli stabilimenti e tra gli operai. Il secondo è un esposto che due consiglieri regionali fanno in Procura sulla scorta dello studio presentati da Ricci. Le indagini iniziano nel 2001. I sostituti procuratori di Mantova, Tamburini e Martani, raccolgono e sequestrano migliaia di documenti nelle sedi milanesi del’azienda e in otto anni di indagini esaminano oltre duecento decessi, spulciando minuziosamente le cartelle cliniche di ognuno, valutano dove hanno lavorato, in quali reparti, con quali sostanze sono stati maggiormente a contatto.

La pubblica accusa si avvale della consulenza del professor Lorenzo Tomatis, direttore dell’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, che studia la correlazione far certe sostanze lavorate negli stabilimenti Montedison di Mantova e gli effetti oncologici che una esposizione prolungata a queste può determinare. Tomatis, però, muore nel 2007 e il processo, per l’accusa, subisce un duro colpo. Si arriva davanti al giudice per le indagini preliminari nel marzo 2010 con 16 manager Montedison sotto accusa, che poi diventeranno 11. Il giudice ammette tutte le parti civili a processo: le famiglie delle vittime, sindacati dei chimici, due aziende del gruppo Eni, la Polimeri Europa, la Syndial, il Comune e la Provincia di Mantova e la Regione Lombardia. Gli accusati si affidano a un pool agguerrito di avvocati che cerca in ogni modo di smontare la tesi che i dirigenti fossero a conoscenza della pericolosità, per gli operai, delle sostanze lavorate negli stabilimenti della Montedison di Mantova. Sono accusati della morte di 72 operai, che diventeranno 73 nel corso del processo. Muore, infatti, per mesotelioma, Dino Beduschi che fa in tempo a deporre davanti al giudice. “Nessuno – ha detto Beduschi nel corso dell’udienza – ci ha informato dei pericoli. Nessuno mi ha mai detto: stai attento. Ma sapevo di lavorare in un posto poco sicuro. Bastava una scintilla per far esplodere tutto”. Il processo va avanti fra cambi di giudici e pubblici ministeri. Quelli che arrivano a sentenza chiedono una pena complessiva di ottant’anni di carcere per gli undici imputati e un maxi risarcimento di 324 milioni di euro richiesto dalle parti civili.

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