Rebibbia: dall’area “verde” dei colloqui con i parenti arriva un drappello di donne, mamme, nonni, fratelli. In testa, a guidare tutti una decina di metri avanti, un bimbetto vestito di nero, con maschera e mantello tipo cavaliere oscuro. Passo sicuro e spada protesa verso l’alto, contro chissà quale nemico immaginario, in direzione porta carraia. È carnevale anche qui.

In città mi muovo in bici. Per andare a San Basilio passo per il parco di Aguzzano. Davanti al “femminile” dai cespugli si levano grida nelle lingue più disparate: uomini che chiamano da fuori in direzione delle celle, donne che rispondono da dietro le sbarre. Suppongo parlino dei figli, della scuola, dell’avvocato, della prossima udienza. Comunicazioni ordinarie.
Per terra, quel che resta di un cerchio di botti bruciati. Penso a quel tale che avrà voluto passare la notte di Capodanno qui fuori, tra le sterpaglie; e alla gioia seppur momentanea che deve aver donato alla sua donna che vedeva il buio dei prati degradati illuminato dai suoi petardi. Se non è fuoco dell’amore questo!

Foto carcere 675

In palestra mi incontro spesso con un agente di polizia penitenziaria in servizio nella Terza Casa Circondariale: è un settore speciale del carcere, a “custodia attenuata” per i detenuti tossicodipendenti, dove abbiamo avviato da poco corsi di scuola superiore. Ci sono casi oggettivamente difficili, come quello di un ragazzo che mi ha raccontato che, una volta uscito, vorrà solo curarsi del proprio figlio. Il bambino, essendo anche la madre eroinomane ed avendo naturalmente assorbito ogni cosa da lei attraverso il cordone ombelicale, è nato tossicodipendente ed è stato sottoposto subito a una cura a base di metadone, con gli immaginabili effetti sulla salute. Con quell’agente ci troviamo a condividere realtà di questo tipo, eppure chiacchieriamo del più e del meno come con qualunque avventore della palestra.

Mi fermo spesso a parlare con il comandante della polizia penitenziaria. Sappiamo entrambi che tutto ciò che facciamo, i vari progetti che portiamo avanti non potrebbero mai essere realizzati se non incontrassero la collaborazione di tutti coloro che a vario titolo operano all’interno del penitenziario. L’altro giorno ci siamo fermati a lungo all’uscita del carcere a chiacchierare amabilmente: io sulla mia bici, lui aveva appena inforcato il casco per lo scooter.

Ecco, qualcuno si domanderà a cosa serva raccontare di un bimbo mascherato, di un gesto d’amore, di un poliziotto che va in palestra, di un commissario in motorino. Ma è proprio questa normalità della vita che scorre anche in carcere che nessun libro e nessun film hanno finora saputo raccontare efficacemente. Si cerca sempre la spettacolarità e normalmente la si trova attraverso storie di violenza, il più delle volte perpetrate da crudeli aguzzini. Son cose che succedono, non c’è dubbio, ma quello che ho imparato in questi lunghi anni di Rebibbia è che, a parte casi isolati, certe dinamiche vanno sapute cogliere sotto un velo di apparente monotonia; un po’ come accade fuori, all’interno delle nostre famiglie. La maggior parte del tempo in carcere passa nella più semplice quotidianità.

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