“Nel Cinquecento rappresentavamo l’8% della popolazione. Oggi meno dell’uno per mille”. Andrea Pesaro è il presidente della comunità ebraica di Ferrara che oggi conta non più di 150 persone. Sotto gli Estensi la città fu capace di attirare le menti migliori d’Europa, tra cui migliaia di ebrei. Poi il declino. Nel corso del Seicento, quando Ferrara entrò a far parte dello Stato pontificio, anche qui fu costruito il ghetto, abolito solo dopo l’Unità d’Italia. Infine arrivò il fatidico 1938. “I miei nonni Silvio e Albertina Magrini erano rimasti qui anche dopo che furono promulgate le leggi razziali. Silvio dal 1930 era presidente della Comunità”. Andrea, classe 1937, era il più piccolo di quella grande e benestante famiglia dalla quale Giorgio Bassani, nel 1962, prenderà ampiamente spunto per scrivere il suo Giardino dei Finzi Contini.

Una storia che resta ancora da capire: “Ci furono pesanti polemiche tra mio padre e Giorgio Bassani”, spiega Andrea. “Da un lato c’è il diritto di uno scrittore di scrivere quello che ritiene opportuno. Dall’altra però c’è il risentimento di una famiglia, quella dei discendenti di Silvio Magrini, che aveva sempre avuto delle fondamenta etiche e morali molto profonde e che si sentì rappresentata in maniera fisicamente molto riconoscibile. La struttura della famiglia è la stessa, i nomi sono cambiati di pochissimo”. Secondo Andrea, a parte il caso di Micòl, non ci vuole molta fantasia per associare la famiglia del professor Ermanno Finzi Contini, morto ad Auschwitz con la moglie nel 1943, a quella del professor Silvio Magrini. “Il giovane Alberto Finzi Contini, nel romanzo muore di malattia esattamente come mio zio nel 1942. E mio zio si chiamava Uberto. Bassani non ha neppure cambiato il nome del cane, con cui tra l’altro ricordo di avere giocato”. E le partite a tennis così celebri del romanzo? “In casa Magrini c’era anche il campo da tennis”. 

La storia dolorosa dei Magrini iniziò dopo l’8 settembre 1943, quando il nord Italia finì in mano a nazisti e repubblichini e Andrea si salvò solo perché non era a Ferrara: “Mio padre Marcello a quei tempi lavorava a Carrara come direttore delle Ferrovie marmifere. Nel 1939 fu licenziato perché ebreo. Ci trasferimmo a Vercelli trovò lavoro in un pastificio privato. A dicembre la situazione si fece complicata e passando clandestinamente per Milano e Como fuggimmo in Svizzera. Io, mia sorella, mio padre e mia madre, Giuliana Magrini. Attraversammo il monte Bisbino di notte, a piedi, e appena arrivati le guardie di frontiera elvetiche mi diedero una scatolina di liquirizia. Siamo rimasti lì sino al 1945 e quella scatolina di liquirizia non me la dimenticherò mai”. Dei nonni, a Ferrara, nessuna notizia.

Solo al loro ritorno scopriranno cosa è accaduto. Andrea racconta tutto con delicatezza, senza alcuna drammatizzazione superflua: “Mia nonna Albertina nel settembre 1943 si trovava in campagna con la vecchia madre. Silvio invece era rimasto in città. Dopo l’8 settembre venne internato all’ospedale Sant’Anna e lì nel novembre 1943 fu catturato e trasferito al campo di transito di Fossoli. Da lì, nel febbraio 1944, partì per Auschwitz con il primo convoglio di italiani. Fu ucciso all’arrivo”. Andrea fa una pausa: “Questo era normale, chi non poteva lavorare finiva nei forni senza passaggi intermedi”. Perché Silvio non scappò via? Forse non pensava che si sarebbe andati oltre, dopo le leggi razziali. Non in Italia almeno: “Mio nonno era di spirito patriottico. Era partito volontario nella Grande Guerra proprio perché riconoscente ai Savoia e all’Italia per l’emancipazione degli ebrei e la chiusura dei ghetti. E invece alla fine si è sentito tradito proprio dalla sua patria”.

Albertina scoprì solo all’inizio del 1944 che il marito era stato catturato. “Scrisse una lettera a mia madre, una lettera che poi leggemmo solo al nostro ritorno dalla Svizzera. Scrisse di essere lacerata da un dilemma: stare in campagna a curare la mamma o seguire Silvio e la sua sorte”. Albertina scelse di cercare il marito: “Venne a Ferrara e nel marzo 1944 fu arrestata da un gruppo di fascisti dentro la sua casa di via Borgo Leoni. In quel momento non sapeva della sorte del marito, sperava di raggiungerlo, magari proprio a Fossoli”. Ma Silvio era già morto ad Auschwitz e quando arrivò nel campo di sterminio anche lei fu uccisa immediatamente. “Io non credo che avessero cognizione di quello che stava succedendo fuori dalle frontiere italiane”, ragiona Andrea, “assolvendo” la scelta d’amore di sua nonna. Quando Andrea e la famiglia nel 1945 tornarono a Ferrara la comunità ebraica era ormai decimata: “Dei 100 che erano stati deportati nei campi di sterminio in città ne tornarono 5”.

Andrea, poi diventato ingegnere informatico con una carriera tra Ferrara, Milano e gli Stati Uniti, della Ferrara di oggi ha un ottimo parere: “Nel secondo Dopoguerra ha ripreso un atteggiamento di apertura, anche nei confronti degli ebrei, un atteggiamento simile a quello dell’epoca degli estensi. Oggi quindi non vedo atteggiamenti antisemiti”.

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