Sui “Rolex degli emiri” non sapremo nulla di più. Basterà paventare il rischio di un “pregiudizio alle relazioni internazionali dell’Italia”. Gli scontrini dei politici? Potranno restare ancora sepolti sotto la parola “privacy”, mentre la pietra tombale sui conti di Expo, sulle concessioni dello Stato e i derivati dei comuni sarà il rischio di determinare “un pregiudizio alla politica di stabilità finanziaria ed economica dello Stato”. Abbonda di motivi per negare dati e documenti anche la riforma della Pa digitale che prometteva maggiore trasparenza delle amministrazioni, difetto che vale all’Italia due record poco invidiati: siamo campioni assoluti in corruzione e quintultimi nella classifica dell’accesso alle informazioni di interesse pubblico tra ben 103 Paesi (Rti).

Per recuperare posizioni il governo ha appena varato la sua trasposizione in chiave nazionale del celebre Freedom of information act (Foia), la legge americana che dal 1966 garantisce al cittadino l’accesso ad ogni informazione in possesso dello Stato che non contrasti con la privacy e la sicurezza nazionale. A distanza di una settimana, a proposito di trasparenza, il testo della riforma entrato a Palazzo Chigi sul sito della Pcdm ancora non c’è. Circola da giorni tra gli addetti ai lavori che dibattono tra loro. Chi lo difende, sostenendo che sia un passo avanti rispetto alla legge 241/1990 perché amplia la legittimazione soggettiva dei richiedenti a tutti e non a chi può rivendicare un interesse “diretto, concreto e attuale corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al dato al quale si chiede di accedere”. I detrattori lo hanno ribattezzato invece il “Foia all’amatriciana”, ritenendolo più vicino alla supercazzola che allo standard americano.

Lo pubblichiamo integralmente sul nostro sito, sia lo schema di decreto da 42 articoli (sotto) che la relazione illustrativa (scarica). Il testo, va precisato, dovrà ottenere il parere – non vincolante – del Parlamento e fare un ulteriore passaggio in Consiglio, ma chi temeva un provvedimento “annacquato” troverà almeno sette spiacevoli conferme. Eccole, punto per punto.

1) Gratuità dell’accesso. Il ministro Madia ha sostenuto che l’accesso civico è gratuito perché così si incentivano i cittadini a pretendere la trasparenza. In realtà l’art. 6 a pagina 5 specifica che “il rilascio di dati in formato elettronico o cartaceo è subordinato soltanto al rimborso del costo sostenuto dall’amministrazione”. Senza specificare però come viene calcolato.

2) Le eccezioni. Sono elencate all’art. 5 e rappresentano altrettante scappatoie per non divulgare un bel nulla: sicurezza nazionale, difesa e questioni militari, relazioni internazionali, politica e stabilità finanziaria dello Stato, indagini sui reati e loro perseguimento, attività ispettive, segreto di Stato.

3) Il pregiudizio “verosimile”. A decidere quando rigettare o accogliere la richiesta è la stessa amministrazione secondo un criterio soggettivo (“verosimile”) rimesso alla valutazione del dirigente.

4) La responsabilità. Se non perviene alcuna risposta dopo 30 giorni significa che la richiesta è stata rigettata e non viene fornita alcuna motivazione, così nessuno si assume la responsabilità di spiegare all’esterno perché cela la documentazione richiesta.

5) I costi. Resta la possibilità di fare un ricorso al Tar che costa 500 euro di tasse, l’onorario dell’avvocato e sei mesi per arrivare a sentenza. E se poi si scopre che il dirigente ha sbagliato?

6) La sanzione. L’amministrazione e il suo personale che nega illegittimamente l’accesso non ha sanzioni o altre forme di deterrenza e piena rispondenza alle prescrizioni di legge. Neppure a seguito di giudizio soccombente.

7) Complessità. La legge non abolisce le precedenti, in particolare la 241/90 che norma l’accesso. Una sovrapposizione di prescrizioni che sarà recepita dagli uffici come ulteriore onere e non come adempimento civico a tutela di un diritto che nella società della conoscenza è divenuto primario.

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