Sono giorni di forte tensione sui mercati europei (rimbalzo di ieri a parte). I prezzi delle azioni crollano, in aggiunta alle difficoltà dei mercati obbligazionari bancari a prezzare il bail-in, il salvataggio “interno” della banca con la parziale imposizione di perdite su creditori e obbligazionisti. Le banche italiane, in particolare, sono sotto il fuoco degli investitori. Monte dei Paschi ha perso più della metà del suo valore da inizio anno e aleggia tanta incertezza che molti commentatori si affidano alla mano nera della speculazione internazionale. Una più plausibile verità è che siamo di fronte a una combinazione di fattori esterni, quali il bail-in e il taglio delle previsioni di crescita post-crisi cinese per il 2016, e interni, con i fallimenti dell’azione di governo e di vigilanza accumulatisi nel tempo. Mettere la polvere sotto il tappeto non è più possibile, se la polvere diventa troppa.

La questione dei crediti deteriorati delle banche italiane non è nuova. Se ne parla già nel 2009, con la prima crisi di Mps, e poi nel 2011, quando l’Italia fronteggia le vendite sui titoli di Stato guidate dall’incertezza politica ed economica. Parlare di banche in quei giorni era destabilizzante. Nei primi mesi del 2012, però, neanche il primato delle banche italiane tra quelle che hanno preso liquidità dalla Bce all’1% smuove il governo per predisporre un’àncora di salvataggio nazionale o europea nel caso di una (prevedibile) crisi bancaria. A metà 2012 la Commissione europea propone le nuove regole sulla risoluzione delle banche, incluso il nuovo bail-in, su cui l’Italia mette una firma senza nessun vincolo sulla creazione della protezione finanziaria comune all’unione bancaria, ovvero la backstop fiscale europea.

Neanche la crisi bancaria spagnola, molto simile alla nostra, spinge l’Italia a fare fronte comune con Paesi come la Francia per la ricapitalizzazione diretta del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). La Spagna viene lasciata sola e alla fine ottiene i fondi Mes tramite la contabilizzazione a debito pubblico e con l’obbligo di fare riforme fiscali con la Troika, anche se molto più leggere rispetto al caso greco. La ricapitalizzazione indiretta è giustificata con l’assenza di un’unione bancaria, cioè una vigilanza e un fondo di protezione dei depositi comuni. Dopo la crisi cipriota del marzo 2013, risolta anch’essa con la ricapitalizzazione indiretta, la situazione sui mercati internazionali migliora e tutto finisce nel dimenticatoio. A settembre 2013 è approvato il Meccanismo di vigilanza unico guidato dalla Bce e si lancia una revisione dei bilanci di tutte le banche dell’Eurozona. L’esercizio per le banche italiane mostra valutazioni dei crediti deteriorati molto “ottimistiche” rispetto ad altre banche europee e la Bce le obbliga a ricapitalizzare. Il governo si lancia in altri salvataggi, oltre i Tremonti o Monti bond. La fantasia non manca e arriva la rivalutazione delle azioni di Banca d’Italia, che trasferisce alle banche una plusvalenza di oltre 5 miliardi, in violazione di una direttiva Ue che impone il passaggio del capitale di Bankitalia allo Stato.

A dicembre 2014, i 18 ministri delle Finanze dell’euro alla guida del Mes approvano il meccanismo di ricapitalizzazione diretta. Siamo alla fine della presidenza italiana dell’Unione, capitanata dal nuovo primo ministro Matteo Renzi. Quello che esce fuori dal Mes è molto deludente rispetto a quanto auspicato nel 2012. Prevede un tetto di 60 miliardi per tutto il fondo, mentre solo con la ricapitalizzazione indiretta spagnola si bloccano 100 miliardi. Il fondo può intervenire solo per grandi istituzioni finanziarie e solo se l’intervento statale diretto rischia di danneggiare la sostenibilità fiscale. La procedura, però, non è stata formalmente attivata e si andrebbe comunque alla ricapitalizzazione indiretta, con le condizionalità fiscali, se le risorse del bail-in e del fondo di risoluzione, anche con prestito statale, fossero insufficienti.

Il risultato di questa gestione delle politiche europee è che oggi ci troviamo con un’Italia stretta all’angolo per colpe proprie (e senza un piano B) che implora la Commissione di approvare una bad bank in odore di aiuti di Stato e urla al complotto, inasprendo le relazioni non solo con la sgangherata presidenza Juncker, ma soprattutto con quei Paesi che il “complotto” l’hanno accettato e che oggi dovrebbero essere nostri alleati per far passare provvedimenti chiave come il meccanismo di protezione dei depositi europeo. Al coro degli stonati, si aggiunge poi la richiesta pubblica della Consob alle banche quotate se avessero ricevuto la lettera d’informazione della Bce sui crediti deteriorati. La notizia getta benzina sul fuoco dell’incertezza e mostra anche l’incapacità di coordinamento tra autorità nazionali.

Ora bisogna raccogliere i cocci e rinchiudere i cani da guardia, lavorando dietro le quinte per ricostruire un fronte europeo e accelerare temi come la backstop comune del sistema bancario e la ricapitalizzazione del Mes senza condizionalità fiscali. Serve poi una valutazione indipendente (Aqr) dei bilanci delle banche italiane che non sono sotto la supervisione diretta Bce (circa 200 gruppi bancari) per capire qual è l’entità reale dei crediti deteriorati prima di valutare qualsiasi opzione. È ora di prepararsi per il peggio, con una buona dose di speranza che l’invidiabile mole di risparmi privati delle famiglie italiane rimedi all’inadeguatezza dei propri governanti.

Diego Valiante è capo dell’Unità mercati finanziari e istituzioni del Centre for European Policy Studies

Da Il Fatto Quotidiano del 22 gennaio 2016

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