Era arrivato alla Casa Bianca, nel 2008, promettendo di mettere fine alle divisioni partigiane, agli scontri ideologici, alla contrapposizione tra l’America “rossa”, repubblicana, e quella “blu”, democratica. Se ne va ammettendo che il suo “maggior rimpianto è che il rancore e il sospetto tra i partiti sono aumentati”. Barack Obama ha usato il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione per riaffermare puntigliosamente l’immagine di America che ha coltivato in questi anni – e che lui pensa di lasciare in eredità: un’America più forte, per nulla fiaccata dalla crisi economica e dall’instabilità globale; ma anche un’America che rischia di soccombere alla retorica dei demagoghi e alle sue stesse paure.

Rispetto al passato, questo discorso sullo Stato dell’Unione è stato sicuramente più breve – 5462 parole, per poco più di un’ora – e meno segnato dall’esposizione di un vero e proprio programma legislativo. Obama sa di essere un presidente vicino all’addio e che gran parte di quello che doveva, o poteva fare, è ormai consegnato agli anni trascorsi. Proprio per questo, ha tralasciato i dettagli e si è concentrato sulla visione d’insieme – con un tono molto più colloquiale, ironico, rilassato rispetto al passato. Soltanto in rare occasioni – per esempio quando ha reiterato l’intenzione di chiudere Guantanamo, o di proteggere “i bambini dalla violenza delle armi da fuoco” – il presidente ha parlato di iniziative politiche concrete. Per il resto, appunto, ha dominato l’appello ai principi.

Il “cuore” del discorso è stato il richiamo ai principi fondativi degli Stati Uniti e il rigetto della paura. Tutti, in sala e davanti agli schermi, hanno potuto sentire il riferimento al dibattito politico corrente, e alla figura di Donald Trump, quando Obama ha detto che “mentre cresce la frustrazione, ci saranno voci che ci chiedono di tornare a divisioni tribali, a prendere come capri espiatori dei nostri concittadini, che non appaiono come noi, che non pregano come noi, che non votano come noi, o che non condividono la nostra stessa educazione”. Sarebbe un errore, ha continuato Obama, “perché non renderebbe più forte la nostra economia, né ci renderebbe più sicuri. Soprattutto, questa posizione contraddice tutto ciò per cui il mondo ci invidia”.

Più avanti, Obama è stato ancora più esplicito, nell’additare i pericoli del razzismo anti-islamico: “Quando i politici insultano i musulmani, la cosa non ci rende più sicuri. Non è dire le cose come sono. E’, semplicemente, sbagliato”. Come sbagliato, “e tale da renderci meno degni agli occhi del mondo”, è proibire ai musulmani l’entrata negli Stati Uniti. La richiesta di un Paese che non soccomba agli istinti peggiori del razzismo e della discriminazione è stato peraltro accompagnato da una puntigliosa rivendicazione della propria autorevolezza in politica estera – “provate un po’ a chiedere a Osama bin-Laden”, ha ironizzato a un certo punto il presidente – e allo sforzo di difendere quanto è stato fatto in questi anni, soprattutto in tema di lotta al radicalismo islamico.

“Nel momento in cui puntiamo a distruggere l’Isis, proclami esagerati sul fatto che questa è la terza Guerra mondiale fanno il gioco di quella gente. Masse di militanti sul retro dei camion e anime contorte che complottano in appartamenti e garage rappresentano un pericolo enorme per i civili e devono essere fermati. Ma essi non sono una minaccia alla nostra stessa esistenza”. In questo modo, Obama ha risposto alle critiche di chi in questi mesi lo ha accusato di aver sottostimato il “problema Isis”. Ancora recentemente, in conversazioni private con alcuni giornalisti, il presidente ha ribadito la sua convinzione di aver fatto bene a non scatenare una guerra a tutto campo contro lo Stato Islamico, che a suo parere rappresenterebbe una minaccia soprattutto regionale.

E’ una visione poco in sintonia con un’opinione pubblica confusa, timorosa di nuovi attacchi, e che i repubblicani continuano a contestare. Proprio mentre Obama parlava dell’Isis, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, il senatore John McCain scuoteva visibilmente il capo. Non di meno, Obama ha ribadito il suo pensiero: “Non dobbiamo cedere alla loro propaganda. Non dobbiamo scatenarci per dimostrare che siamo seri, né allontanare degli alleati vitali accettando la menzogna dell’Isis – e cioè che esso sia rappresentativo di una della maggiori religioni al mondo. Dobbiamo invece chiamarli con il loro vero nome: e cioè assassini e fanatici”.

Dove invece Obama ha fatto una concessione alla realtà della frustrazione di molti americani è stato quando ha affrontato il tema dell’economia. “In questa economia totalmente nuova, lavoratori e piccoli imprenditori faticano a far sentire la loro voce. Le regole non lavorano a loro favore”. Promettendo di usare il suo ultimo anno alla Casa Bianca per migliorare le condizioni di queste fasce di popolazione, e della classe media in generale, il presidente è sembrato riecheggiare toni che in questa campagna presidenziale sono stati usati soprattutto dal candidato della sinistra, Bernie Sanders. “Chi dipende dai buoni pasto non ha causato la crisi finanziaria; è stata l’imprudenza di Wall Street a causarla”. Gli immigrati non sono la ragione perché i nostri salari non sono cresciuti a sufficienza; quelle decisioni sono prese nelle sale dei consigli di amministrazione che troppo spesso privilegiano guadagni di breve periodo”.

Nonostante questo, nonostante le difficoltà di molti e un divario di condizioni, e di accesso alle risorse, Obama ha difeso l’azione della sua amministrazione in campo economico. “Chiunque proclami che l’economia americana è in declino vende pura finzione”, ha detto, con un accenno piuttosto esplicito ai rivali repubblicani, che stanno facendo campagna elettorale in questi mesi attaccando le politiche del presidente e rappresentando un’America fiaccata dalla crisi, dall’insicurezza e dallo sconforto per il futuro. Contro questa visione a tinte fosche, il presidente ha rilanciato un’immagine di ottimismo e di speranza: “L’America è il Paese più potente al mondo. Punto”, ha detto, in uno dei passaggi più applauditi dai democratici (mentre i repubblicani sono rimasti ostinatamente seduti, in silenzio, per tutta la durata del discorso). Poi, come promemoria per il futuro, per chi verrà dopo di lui, Obama ha elencato quattro grandi questioni, quattro domande cui dare risposta: “Come dare a ognuno sicurezza e pari opportunità nella nuova economia? Come far funzionare la tecnologia per noi, e non contro di noi? Come mantenere l’America sicura, in grado di guidare il mondo, senza farla diventare il poliziotto del mondo? Come fare in modo che le nostre politiche rappresentino il meglio, e non il peggio di noi?”

Alla fine proprio la fede nel “meglio che prevarrà” – in un diretto riferimento ai temi del “change and hope” che avevano contrassegnato la prima campagna elettorale di Obama – è stato il filo portante di questo discorso. In un riferimento alla figura storica che più di ogni altra lo ha segnato e influenzato, Martin Luther King, Obama ha detto: “Non sarà cosa facile. Il nostro tipo di democrazia è complesso. Ma vi posso promettere che tra un anno, quando non sarò più presidente, sarò con voi, come cittadino – ispirato dalle voci di giustizia e visione, di gentilezza e positività che hanno aiutato il viaggio dell’America sinora. Voci che non ci fanno considerare in primo luogo come bianchi o neri, asiatici o latini, gay o etero, migranti o nativi, democratici o repubblicani. Ma che ci fanno pensare a noi stessi anzitutto come americani, legati d aun credo comune. Voci che il dottor King credeva avrebbero alla fine avuto il sopravvento – voci di verità disarmata e amore incondizionato”.

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