Ormai sento sul collo il respiro di coloro che vorrebbero arrivare alle conclusioni serie. Mi spiace per loro ma bisogna ancora fare alcuni passi intermedi, altrimenti si rischia di non afferrare una grossa opportunità. E il mio obiettivo non è di raccogliere plausi o condanne, bensì quello di formare un gruppo di persone che capisca quale potenziale beneficio possiamo portare a questo mondo oggi asfittico della manifattura italiana.

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A mettere in movimento le situazioni reali ci ha pensato (e continua a pensarci) l’evoluzione tecnologica.
Faccio un esempio che ho personalmente vissuto. Stavo discutendo – ormai molti anni fa – con l’amministratore delegato di una nota casa motociclistica italiana. Stavamo passando in rassegna i reparti produttivi quando un tecnico in camice verde ci raggiunse: doveva sottoporre all’ad un problema: nella mano destra teneva una manciata di ingranaggi destinati al ‘cambio di velocità’ di un certo modello della casa.

Si poneva un problema: questi ingranaggi non rispondevano alle prescrizioni qualitative imposte dal disegno del progettista, ma erano tanti ed erano già stati prodotti e pronti per andare in ‘cementazione’: che fare, buttarli? Il nostro ad era in serio imbarazzo: ma non tanto perché si poneva una questione di ‘qualità’ del prodotto, quanto perché ero presente io, esterno all’azienda, che avrei potuto essere un pericolo dal punto di vista dell’immagine della società. Ebbe qualche esitazione. Poi, guardandomi negli occhi, quasi a chiedere la mia complicità, mise una mano sulla spalla del tecnico in camice verde e disse: ‘Dai, dai, che siete capaci di impiegarli lo stesso…!’.

Personalmente non mi stupii: nel mio passato professionale queste cose accadevanoquotidianamente in una grande casa automobilistica. Poi, alla fin fine, il cliente finale non si sarebbe accorto di nulla ma intanto si salvavano produzioni che sarebbero state da scartare.

A rompere le uova nel paniere arrivarono negli anni settanta pesantissimi i giapponesi, con il loro ‘just-in-time’, il ‘kanban’, la ‘total quality’, ecc.ecc. Nelle nostre aziende accadde di tutto, ma per accettare queste nuove regole le nostre maestranze ci misero una trentina d’anni, durante i quali la ‘quality’ dei nostri prodotti Oem subì colpi impressionanti. I sindacati non capirono la durezza dell’evoluzione che il mercato globale stava imponendo, questo problema fu affrontato con lotte e scontri dal carattere ‘reattivo’ e non ‘propulsivo’ per un numero di anni nei quali l’immagine della nostra ‘quality’ nel mondo tese al forte ribasso. E perdemmo molti mercati.

Anche noi italiani cominciammo a percepire una sensibile differenza qualitativa fra le nostre automobili e quelle tedesche o giapponesi o coreane. La differenza era palpabile: tutto il mondo manifatturiero però stava percorrendo una curva d’esperienza molto importante: si capì che il subfornitore, per capirci le aziende Ssm, non erano così intercambiabili. Ricordo la saggezza meneghina del mio nonno paterno (che nel 1906 aveva messo in piedi una ‘fabbrichetta’) quando diceva: ‘un buon fornitore costruisce metà del successo di bilancio…’.

A poco a poco, nel mondo dei rapporti fra Ssm e Oem si venne a formare una ‘segregazione’ silenziosa, quasi naturale: una sorta di ‘fascia A’ (non identificata da nulla se non da una immagine qualificata) e una sorta di ‘fascia B’ (le Ssm a immagine minore). Dimentichiamo le conseguenze sui ‘prezzi’ dei prodotti, ma venne a verificarsi un fenomeno ancora da molti non colto nella sua grandissima importanza: i legami fra le aziende-buyer e le Pmi di ‘fascia A’ si sono intensificati e la vera motivazione di questo fenomeno (avvenuto a danno dei legami fra le medesime aziende-buyer e le PMI di ‘fascia B’) è costituita dal fatto che un qualsivoglia ‘buyer’ rischia la carriera se il fornitore non mantiene i propri impegni e la ‘catena produttiva’ rischia il blocco. A volte una Pmi di ‘fascia B’ non riesce a entrare neppure forzando a dismisura il ‘prezzo d’offerta’: anzi, così facendo, provoca una crescente diffidenza da parte di molti buyers.

Come cerco di spiegare, questo fenomeno ha carattere spontaneo e non si tratta di un fenomeno che caratterizza solo le nostre Pmi: a poco a poco, diffondendosi questa realtà economica, si sono formati dei ‘gruppi’ di aziende, di varia conformazione, non legate da patti speciali, che hanno dato vita alla cosiddetta ‘impresa olonica’: fu uno studioso ungherese che ne parlò e che definì il termine ‘olonico’, da holos (tutto) e on (parte) per identificare la combinazione di un sistema con le sue parti. E’ un fenomeno mobile, spontaneo, ma assolutamente esistente e operante e, oltretutto, crescente nella sua applicazione, ancorché spesso inconsapevole.

Nonostante la sua silenziosità, il suo esistere silenzioso, si tratta di un fenomeno epocale e il nostro ‘sistema manifatturiero’, nel suo vivere affannoso, non l’ha ancora – salvo pochi – colto. Un sistema di imprese-oloni forma una unica impresa, definita appunto impresa virtuale perché non corrisponde a un’impresa reale.

Fantasia? Sogno? Per nulla: è una realtà che ha anche in Italia degli esempi e dei successi clamorosi. Ne parleremo più a fondo.
Certamente per molti queste affermazioni sono un po’ come l’arabo per i latini: ma questo scenario fa ormai parte della realtà industriale internazionale. Sì, internazionale, perché oltretutto questa nuova realtà industriale non conosce confini politici o geografici.

L’argomento è davvero grosso e, soprattutto, importante: perché genera conseguenze enormi sui ‘costi’, sulle curve d’esperienza tecnologiche, sulla capacità finanziarie. E’ un fenomeno che genera ‘cultura’, e Dio solo sa quanto le nostre Pmi abbiano bisogno di questo straordinario ingrediente, multiforme e trascinante: la ’cultura’ aziendalistica (tecnica, di marketing, finanziaria).

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