La strategia del ragno applicata dall’Isis è abbastanza avventurosa, quanto assai complessa: in apparenza, punta più sul clamore che sulla sostanza. Con poco, cioè, ottiene molto. Basta un kamikaze per fare strage. E per terrorizzare milioni di persone. In effetti, sinora le missioni suicide del Califfato – e di chi lo favorisce – non hanno l’ambizione né lo scopo di rovesciare i regimi dei Paesi in cui spargono il sangue degli innocenti, ma hanno l’esplicito intento di destabilizzarne innanzitutto l’opinione pubblica – locale ed internazionale – e “punire” l’economia che dal turismo trae risorse e valuta spesso fondamentali (e non fondamentaliste). Così facendo, l’obiettivo a lungo termine è quello di seminare il caos, di scatenare il risentimento contro il proprio governo perché non è stato in grado di proteggere gli interessi di chi col turismo campa e prospera e di usurare il potere.

La tela dell’Isis annoda fittamente tanti motivi che sembrano diversi e contrapposti: la semplice somma di questi elementi (il disagio economico, la rabbia, la paura, lo scontento, la ricerca di una giustizia che elimini le sperequazioni) contribuisce a radicalizzare i ceti più poveri, a sovvertire l’ordine sociale puntando sull’insoddisfazione di chi vorrebbe un Paese senza diseguaglianze e senza satrapismi: che è poi il mito propalato dal Califfato, in cui la sharia è legge. A colpi di kalashnikov e di decapitazione.

Colpire infatti il turismo è assai facile, specie nei Paesi musulmani, tanto splendidi quanto strutturalmente fragili: impossibile difendere tutti i siti monumentali, le piazze, i suq, i locali, le spiagge, i musei, gli alberghi. Occorrerebbero misure estremamente coercitive e mezzi costosissimi. E’ questa debolezza che favorisce l’Isis. Le misure di prevenzione sono insufficienti, parziali, campionate. Le complicità incontrollabili. Risultato: ad ogni attentato, aumenta il senso d’insicurezza, di conseguenza diminuisce il flusso vitale dei turisti che disertano i luoghi potenzialmente esposti al terrorismo islamico.

L’abbiamo visto in Tunisia, quando i terroristi hanno colpito la spiaggia del resort di Sousse, o l’attentato al Museo del Bardo del 18 marzo. Nei primi nove mesi del 2015, il calo era stato micidiale: mediamente -26,3%, cioè più di un quarto di presenze perdute, ma con picchi drammatici a settembre (-42,4%). In termini statistici, il peggiore dato tra le prime 50 mete turistiche mondiali. D’altra parte, la Tunisia, secondo l’Onu, è il Paese che ha visto transitare il più alto numero di foreign fighters.

Pure la Turchia ha visto bloccare i suoi conti turistici: un po’ per il boicottaggio della Russia, dopo gli incidenti di novembre e dicembre (il Sukhoi abbattuto dai jet turchi, le contese sulla Siria tra Ankara e Mosca, le accuse di Putin al clan familiare di Erdogan), un po’ perché i turisti hanno cominciato a farsi più accorti, nonostante gli invitanti sconti di questi ultimi mesi. E’ certo che l’attacco jihadista alla Istanbul del turismo (10 morti, nove dei quali tedeschi) farà precipitare prenotazioni e fatturati.

Ed è facile immaginare l’effetto “politico” di tale attentato, che già qualcuno legge come un segnale ben preciso diretto ad Erdogan e alle sue ambiguità. Naturalmente gli esperti di Medio Oriente si affanneranno a dimostrare che l’attacco di martedì 11 gennaio è un “salto di qualità”, ma non lo era già stato quello di Ankara, quasi cento morti poco prima che iniziasse la manifestazione pacifista filocurda?

Il Califfato sfrutta abilmente le contraddizioni di una Turchia che è rappresentata da un presidente e un governo che puntano sui valori dell’Islam, ma che non possono dimenticare i legami con l’Europa (il processo di adesione all’Ue) e con la Nato, di cui sono il baluardo più importante. La Turchia è schierata con l’Occidente e combatte la jihad. Lo Stato rispetta l’Islam, ma fa la guerra agli islamisti. Su questo crinale ideologico s’insinua il veleno dell’Isis. Che indebolisce: c’è chi evoca il ritorno del Grande Malato, come veniva chiamato l’Impero Ottomano a cavallo della prima guerra mondiale.

Quanto all’Egitto, il terrorismo – l’aereo russo che il 31 ottobre un ordigno rudimentale ha fatto esplodere mentre sorvolava il Sinai, con 224 turisti a bordo; l’attacco all’hotel Bella Vista di Hurgada dell‘8 gennaio che però si è risolto con tre turisti feriti – ha causato un forte contraccolpo economico. Lo stesso ministro del Turismo, Hisham Zaazou ha stimato, alla fine di dicembre, che c’è stato un calo complessivo del 10% negli introiti del settore. C’è chi calcola il danno in 240 milioni di euro al mese. Tanto che il Cairo ha contatto gli inglesi di Control Risk, l’agenzia di sicurezza che si occupa di New York, Baghdad, Mosca, Erbil e altre località a rischio, per migliorare i filtri di controllo degli aeroporti.

La carenza di valuta ha messo in crisi il bilancio statale (per il 90% decimato dalle spese correnti): non ci sono soldi per varare le riforme promesse ed attese dalla popolazione. I poderosi aiuti degli alleati del Golfo (23 miliardi di dollari dal 2014) sono serviti a tamponare la situazione, non a diversificare o a modernizzarne l’economia. L’immobilismo egiziano è una malattia, ormai. L’Isis vuole renderla letale. Nella strategia del ragno targata Califfato, la tela si avvolge sottile ma implacabile.

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