Cultura

In fiamme: violenza politica in Italia tra la Belle Époque e la marcia su Roma. Il libro di Nicola Maiale

"Siamo una nazione invecchiata. Se vogliamo, il mito e la pratica della violenza salvifica (e di una generazione in fiamme) persiste tuttora, invece, tra i giovani arabi" sostiene Nicola Maiale

di Maurizio Di Fazio

Il socialismo all’alba del Novecento. La nascita del nazionalismo all’italiana. Il sindacalismo rivoluzionario. Il Futurismo. Marinetti, Georges Sorel, Arturo Labriola ed Enrico Corradini. Il mito dello sciopero generale, della giovinezza e del manganello, e la febbre interventista, “la guerra, sola igiene del mondo”. Il sangue, “vino dei popoli forti”. Il lento ma inarrestabile sgretolamento del Giolittismo e del “parlamentarismo borghese”. La Grande Guerra e il sacrificio di milioni di ragazzi nelle trincee. La vittoria mutilata e le avvisaglie del fascismo. Il ritorno nelle città e nelle campagne di milioni di soldati ormai disadattati o abituati all’illusione del comando. Il contagio leninista e il Biennio Rosso. D’Annunzio e la presa di Fiume e quella stranissima esperienza politico-sociale che prese il nome di “Reggenza italiana del Carnaro”, affollata da artisti, scrittori maudit e reduci di guerra, tra fiumi di cocaina e orge a cielo aperto. L’avvento della società e dei partiti di massa. Gli arditi del Popolo e il lassismo della sinistra riformista (ma anche di quella massimalista) nei confronti delle squadracce d’azione mussoliniane. La conquista progressiva del Belpaese da parte di queste ultime. La Marcia su Roma.

E’ uscito il libro “In fiamme: violenza politica in Italia tra la Belle Époque e la marcia su Roma“. Ne è autore Nicola Maiale, giovane storico di Pescara. Un saggio che parla mirabilmente di fatti di un secolo e oltre fa, per mettere meglio a fuoco l’oggi. Cosa è accaduto in Italia tra l’inizio del 1900 e la presa del potere da parte di Mussolini, ex socialista, ex direttore dell’Avanti, “gemello diverso” del poeta D’Annunzio? E perché in quel magmatico ventennio che anticipò il Ventennio una parte importante dei giovani italiani ravvisò nella violenza lo strumento migliore per rovesciare lo Stato, e trasformare radicalmente il nostro Paese? In quel tempo “vide la luce una nuova generazione di intellettuali profondamente inquieta, lontana dalle tradizioni e dalle aspirazioni democratiche che avevano animato gli artefici del Risorgimento e che diede vita a una vera e propria rivolta generazionale contro la vecchia nomenclatura liberale e socialista, destinata a cambiare per sempre la storia italiana. Una rivolta generazionale che trovò nel nascente pensiero nazionalista, nel sindacalismo rivoluzionario e nel futurismo gli strumenti con i quali scuotere le acque di un sistema politico fino ad allora centrato sul contrasto tra il notabilato liberare e la potenza ascendente del mondo del socialismo”.

La violenza dei giovani, insomma, come unica palingenesi e redenzione possibile. Scrisse per esempio Luigi Freddi, futurista e legionario fiumano: “Il pugno è la sintesi della teoria. Esempio: si discute di politica, e ci si perde nel labirinto vizioso delle frasi, delle ragioni, delle obiezioni… Impossibilità di raggiungere lo scopo a parola. Allora il fascista spacca la testa all’altro. Risparmio di tempo, esito garantito. Nulla di più sintetico”. Cosa resta di quell’approccio generazionale di massa alla violenza politica? Poco o nulla, se ci riferiamo sempre all’Italia. Gli anni di piombo sono lontani. “Siamo una nazione invecchiata. Se vogliamo, il mito e la pratica della violenza salvifica (e di una generazione in fiamme) persiste tuttora, invece, tra i giovani arabi” sostiene Nicola Maiale.

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