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Francesca domani torna in Ucraina, torna al fronte, ha detto a Oslo il barista all’altro barista nel mio caffè preferito. Rischiate la vita per spiegarci il mondo, ha detto. Grazie.

Poi ha detto: Siete proprio degli eroi. E invece siamo così un disastro che nessuno neppure sa che la guerra, in Ucraina, è finita.

Dopo oltre un anno, l’11 settembre è stata la prima notte senza fuoco di artiglieria. E da allora la tregua di Minsk, negoziata a febbraio da Francia e Germania, sostanzialmente tiene, prevede il congelamento del fronte in cambio di riforme costituzionali, e cioè decentramento amministrativo e maggiori autonomie locali. E ha superato la sfida più difficile, le elezioni a livello provinciale in programma in autunno: i separatisti del Donbass avevano organizzato elezioni alternative in una data diversa, ma alla fine hanno deciso di rinviare tutto. A Donetsk e Luhansk, semplicemente, non si è votato. Certo, rimangono incidenti isolati, e soprattutto, 1,4 milioni di sfollati. L’economia del Donbass, bacino industriale dell’Ucraina, è ferma. Ma la tregua tiene.

Perché Putin, ora, è concentrato sulla Siria. A settembre, in mezz’ora di discorso all’Assemblea Generale dell’Onu, ha parlato di Ucraina per un minuto solo. Una guerra per cui si era detto pronto a usare le armi nucleari. Otto mila morti per nulla.

Secondo alcuni analisti, in realtà, la guerra è finita perché Putin in fondo ha raggiunto l’obiettivo: la destabilizzazione dell’Ucraina. Non ha sospeso la guerra, l’ha vinta. E in effetti, con tutti questi miliziani ancora in giro, ancora armati, è un equilibrio fragile. La violenza può ricominciare in qualsiasi momento: la Russia ha una leva potente nei confronti di Kiev. Però, a pensarci, è anche vero che considerato lo squilibrio delle forze in campo, la Russia da una parte, dall’altra l’Ucraina, dall’altra un esercito così malconcio che all’inizio si è comprato la benzina con una colletta, data la premessa questo equilibrio, a pensarci, per quanto fragile, è una vittoria per l’Ucraina: un paese che sembrava destinato al collasso politico ed economico, destinato alla guerra civile, e che invece è ancora qui. Tutto di un pezzo.

Non era scontato. Un paese tutto di un pezzo e impegnato in riforme. Certo, sono riforme lente, centrate soprattutto sulla corruzione, perché l’Ucraina è un paese di oligarchi e in questo non è cambiata molto, anzi: gli oligarchi sono stati rafforzati dalla guerra, perché nell’est, nel momento di crisi, hanno in un certo senso sostituito lo stato.

Igor Kolomoisky, padrino di Dnipropetrovsk, ha arginato l’avanzata dei filorussi verso ovest finanziando un esercito privato e istituendo taglie sui separatisti. E oggi la fondazione di Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco d’Ucraina, distribuisce più aiuti umanitari delle Nazioni Unite. Sono dei mezzi mafiosi: ma nell’est, ovviamente, sono venerati come santi. Sfidarli non è semplice, tanto più che il presidente Poroshenko è un oligarca a sua volta. In Ucraina tutti i partiti, ancora oggi, sono espressione più o meno esplicita di un oligarca – un suo strumento. Uno strumento per i suoi affari. Ed è un equilibrio fragile, non c’è dubbio. Il primo ministro è molto contestato, soprattutto dal sindaco di Odessa, paladino della lotta alla corruzione. In parlamento, gli scontri di potere sono spesso scontri veri e propri: a bottigliate in testa.

Ma quello che è finito sui giornali, a Odessa, quello di cui abbiamo letto, non è stato il sindaco contro la corruzione, le sue idee, le sue proposte per l’Ucraina, è stato un altro candidato: un tizio che andava in giro vestito come Darth Vader di Star Wars.

Non interessa a nessuno: e però i ragazzi di Maidan sono ancora qui. E non era scontato. Affatto. Stare con loro è un’iniezione di energia. Nataliya Gumenyuk, Olga Tokariuk, Oliver Carroll, e tutti i giovani giornalisti che stanno cambiando l’informazione in Ucraina, pezzo dopo pezzo, inchiesta dopo inchiesta, una battaglia cruciale all’interno della più ampia battaglia per trasformare questa oligarchia in una democrazia: sono straordinari. Sono bravi, bravi e coraggiosi. Capaci di fare gruppo. E cosmopoliti, in rete con giornalisti e attivisti di tutto il mondo. E insieme a loro Kiev, in questa sera invernale, è bellissima, con i suoi viali larghi, pieni di gente, di luci, di idee: e vorresti essere ucraino anche tu – tu che invece sei italiano, e appartieni alla stessa generazione, esclusa da tutto: ma in Italia non abbiamo avuto il coraggio di niente.

E invece a Kiev sono consapevoli delle difficoltà, dei rischi, consapevoli che l’equilibrio, qui, è fragile: ma per niente abbattuti. Solo attenti ad aspettare il momento giusto. Ma non si sono arresi, si vede. Si sente, come a Istanbul, al Cairo: è una generazione troppo più avanti rispetto a quella al governo: un giorno semplicemente si riprenderanno in mano la piazza. La vita.

E però nessuno di noi, intanto, è qui a raccontarli. Nessuno di noi è qui a rafforzarli, a dare voce a questa Ucraina che prova a cambiare un passo alla volta, senza sfasciare tutto. Con fermezza e saggezza. Ripiomberemo tutti a Kiev al prossimo momento di crisi. Al prossimo sangue per terra. A raccontarvi dell’est contro l’ovest, l’odio ancestrale. I sunniti e gli sciiti.

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