Tonfo dei mercati, intervento pubblico, recupero. Fino alla prossima volta. Sulle borse cinesi ormai funziona così: il governo di Pechino, per motivi politici, va in soccorso dei listini con massicce iniezioni di denaro ogni volta che la crescita inferiore alle attese, la moneta debole o la speculazione li trascinano in profondo rosso. Ma il risultato è un circolo vizioso che induce gli investitori a rischiare ancora di più. Un po’ come un acrobata che in presenza di una rete di protezione è più invogliato a tentare le evoluzioni più rischiose.

Il peggior inizio d’anno di sempre per il mercato cinese – Lunedì l’indice di Shanghai è precipitato del 7%. E il tonfo è arrivato al 10% per le società più piccole. Per il mercato cinese si tratta del peggior inizio d’anno di sempre. Una caduta innescata da due fattori: per prima cosa il deprezzamento dello yuan nei confronti del dollaro (- 1% nonostante le limitazioni al trading di valuta) che tende a condizionare molto il listino e ha innescato una serie di vendite “in automatico”. In seconda battuta i dati sull’andamento dell’industria, peggiori – ma neanche tanto – rispetto alle attese. La violenta discesa degli indici ha fatto ripetutamente scattare il meccanismo automatico che blocca temporaneamente le contrattazioni quando i cali sono superiori al 5%.

“L’assicurazione” statale aumenta la speculazione – Poi, come al solito, si sono mosse anche le autorità di Pechino. Il governo ha iniziato a comprare titoli attraverso alcuni fondi pubblici per sostenerne le quotazioni mentre la banca centrale si è nuovamente mossa a difesa dello yuan. La valanga è stata così arginata, sebbene martedì la borsa cinese abbia chiuso in lieve flessione. Il problema di questi interventi è che ormai tutti se li aspettano e quindi gli investimenti vengono fatti sapendo di poter contare su una qualche forma di “assicurazioneesterna e prendono posizioni più speculative. Come un acrobata con sotto la rete di protezione, appunto. Inoltre i valori di mercato vengono in parte falsati. Il rapporto tra prezzo e utili delle azioni cinesi (un indicatore utilizzato per tentare di capire se il prezzo di un titolo è conveniente) risulta oggi circa triplo rispetto alla borsa statunitense, a quella indiana o a quelle di Londra e Francoforte.

Pechino non ha scelta: 90 milioni di cinesi hanno investito in borsa – Nonostante le turbolenze della scorsa estate il bilancio dell’ultimo anno è tutt’altro che catastrofico, con un calo di neppure il 2%. Tuttavia, se si prendono a riferimento i picchi raggiunti lo scorso giugno il risultato è un preoccupante -36%. Poteva andare peggio se Pechino non avesse messo in campo tutta una serie di misure e interventi che hanno in qualche modo addomesticato un mercato che ora si muove in una sorta di libertà vigilata. La borsa non ha un grande peso nell’economia cinese, la capitalizzazione dei listini è modesta se raffrontata al Pil e gli investitori stranieri sono pochi. Tuttavia negli ultimi anni le autorità centrali hanno cercato di spingere la borsa come canale di finanziamento alternativo per le aziende invogliando le famiglie a comprare azioni per aumentare il valore dei risparmi. Quasi 90 milioni di cinesi hanno così puntato le loro fiches sulla roulette azionaria. Le motivazioni che spingono Pechino a puntellare in ogni modo i listini sono quindi in primo luogo di natura politica.

Sullo sfondo la transizione a un nuovo modello economico – In realtà la borsa riflette il complicato e rischioso cammino intrapreso dalla Cina che sta cercando di rimodellare la sua struttura economica. Da un’economia spinta fondamentalmente da investimenti finanziati a debito a paese che cresce anche grazie alla domanda interna. I postumi di questo modello di sviluppo sono però difficili da smaltire e farlo in modo indolore è quasi impossibile. Tra il 2009 e il 2014 il debito privato cinese è praticamente raddoppiato raggiungendo il 180% del Pil, uno dei valori più alti al mondo. Storicamente crescite così repentine finiscono prima o poi con l’innescare una qualche forma di crisi finanziaria e il credito bancario mostra già segnali di rapido deterioramento. Inoltre la Cina è caratterizzata da una forte presenza del cosiddetto “shadow banking”, ossia soggetti che erogano credito senza essere sottoposti ai vincoli e alle regolamentazioni delle banche, la cui presenza aumenta i rischi di destabilizzazione per il sistema.

Il rallentamento tiene bassi i prezzi delle materie prime – La People’s bank of China ha ancora colpi da sparare ma il suo bilancio, che vale ormai il 60% del Pil cinese, inizia a farsi impegnativo. L’introduzione dello yuan nel paniere di riferimento del Fondo monetario internazionale diventerà operativa dal prossimo primo ottobre e potrebbe favorire l’afflusso di capitali internazionali. Le ripercussioni del rallentamento e della fase di transizione cinese rimangono uno dei grandi fattori di rischio per l’economia globale. Significano innanzitutto bassi prezzi delle materie prime, petrolio innanzitutto, a danno dei Paesi produttori come Russia, Australia, Sud Africa o Brasile. E significano di conseguenza meno “petrodollari” da investire in asset finanziari, tipicamente titoli di Stato statunitensi. Oltre che un danno per tutte le aziende esposte sul mercato cinese, in particolare nei settori del lusso e dell’auto.

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