Risale al 1 dicembre 2015 la deposizione della sentenza della CdC sez. V Penale, numero 47543, che condanna una professoressa, tra le altre cose, per “delitto di abuso dei mezzi di correzione”, una fattispecie di reato in cui può incorrere chiunque abbia persone sottoposte alla propria autorità o a lui/lei affidate per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, e che nello specifico prevede un qualsiasi comportamento che “umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute”. A quanto pare la professoressa in questione è colpevole di aver usato, ai danni di tre sue alunne, atteggiamenti minatori e ricattatori, costringendole addirittura a scrivere una lettera, indirizzata al preside della scuola, nella quale ritrattavano le accuse rivoltele precedentemente.

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La questione è abbastanza ampia e articolata, ma il fatto ci offre almeno uno spunto di riflessione. Se infatti i reati di cui, in base alla sentenza, è responsabile la professoressa sono diversi, uno colpisce in particolare e richiede un qualche approfondimento: l’abuso dei mezzi di correzione aggravato e continuato, esplicatosi, sempre secondo la sentenza della CdC, con le minacce di bocciatura e voti bassi, ingiustificabili, secondo i giudici della Suprema corte, anche qualora il comportamento dei propri alunni fosse stato scorretto, dettaglio quest’ultimo che apre di fatto a scenari quantomeno inquietanti.

Al netto di considerazioni personali circa i propri trascorsi scolastici, in tempi nei quali parole come “ti boccio”, che da oggi, reiteratamente usate, costituiscono reato, non causavano le crisi psichiche di nessuno ma, semmai, un ravvedimento circa il proprio iter curricolare, il quadro, sempre più chiaro, esplicito, evidente, è quello di una classe docente privata di ogni mezzo di avvertimento, ammonimento o richiamo possibili, di fatto esautorata del proprio ruolo educativo: una scuola dunque di docenti/impiegati alla quale viene tolta metà della propria ragion d’essere. Alla didattica infatti l’istituzione scolastica, da che mondo e mondo, affianca una funzione prettamente educativa, preparando le nuove generazioni alla vita e al mondo lavorativo.

Da oggi però l’eccesso di metodi educativi leciti costituisce, secondo la giustizia italiana, reato: chi stabilisce, a questo punto, quale sia il limite oltre il quale l’uso di metodi educativi legittimi sconfini nell’eccesso? La materia è spinosa e incredibilmente fumosa, ma certo è che questo, come molti altri atti prima e chissà quanti altri ne verranno dopo, è l’ennesimo segno di una totale sfiducia nei riguardi delle figure degli educatori e, nello specifico, dell’istituzione scolastica. Volendo a questo punto ragionare per assurdo, cosa accadrebbe se lo stesso principio venisse applicato ad altri ambiti lavorativi e del vivere civile? Iniziamo dall’imprenditoria.

Un giorno un imprenditore facoltoso, osservando che uno dei suoi dipendenti persiste nel saltare gli orari lavorativi e produce poco e male, pensa bene di chiamarlo nel proprio ufficio e di metterlo in guardia circa l’eventualità di un possibile licenziamento: “Già l’ho avvertita altre due volte, e non vorrei dover incorrere in questa eventualità, ma se sarà il caso sarò costretto a licenziarla”. A quel punto il dipendente decide di “far valere i propri diritti”, chiama un avvocato e fa causa all’imprenditore per “abuso dei mezzi di correzione”. L’imprenditore, condannato ad un’ammenda di 1.000 euro e avendo imparato la lezione, non minaccerà più il licenziamento dei propri dipendenti fannulloni, li licenzierà direttamente senza alcun preavviso, garantito in tal senso dalla totale assenza di tutele per i lavoratori.

Spostiamoci ora in ambito familiare. Un genitore che ha promesso al proprio figliolo adolescente un bel motorino di ultima generazione, qualora lo stesso porti a compimento, con buoni risultati, l’anno scolastico, rendendosi conto che la produttività del figlio continua a calare precipitosamente, decide di ritagliarsi quindici minuti per ripetergli un discorso già fatto in precedenza: “Tesoro mio, se non ti decidi a metterti a studiare e a passare l’anno con buoni voti, quel motorino te lo sogni”. Il figlio, indispettito dal comportamento del padre, valuta l’opportunità di farsi assistere da un avvocato. Il genitore viene condannato a regalare il motorino al figliolo anche qualora lo stesso venga bocciato, e questo come risarcimento delle reiterate “violenze psicologiche” foriere di forti malesseri mentali. Senza proseguire oltre in iperbolici esempi, surreali ma utili a chiarire quanto sia importante, per colui o coloro i quali si trovino a svolgere una funzione educativa o di controllo, la possibilità di ricorrere a mezzi di ammonimento e, se del caso, reiterarli nel tempo, colpisce in particolare come quello che fino a ieri era un monito comunemente accettato in ambito educativo e scolastico, oggi costituisca reato.

Aveva proprio ragione Battiato quando, nel lontano 1980, cantava: “L’etica è una vittima incosciente della storia (…) e penso a come cambia in fretta la morale”.

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