Saliha Ben Ali è una donna nata in Belgio e di origini tunisino-marocchine. Il suo secondogenito, Sabri, è partito a 19 anni per la Siria per combattere a fianco dell’Isis nell’agosto del 2013 e dove è morto da martire solo quattro mesi dopo. Ad oggi, sono 325 i giovani e le giovani partiti dal Belgio per unirsi alle forze del califfo Abu Bakr al Baghdadi, in percentuale il Paese europeo con più foreign fighter. A Bruxelles è tutt’ora in corso il processo a Jean-Louis Denis, uno dei principali reclutatori di giovani jihadisti del Paese.

Saliha, come si è accorta della partenza di suo figlio?
“Un giorno mi sono svegliata e ho trovato il suo letto vuoto. Quattro giorni dopo, siamo venuti a conoscenza che Sabri si trovava in Siria”.

Una volta partito, ha tenuto dei contatti con lui?
“A volte chattavamo su Facebook, ma i suoi messaggi erano quelli di un robot. Diceva che tutti noi dovevamo pregare, non era più mio figlio ma un robot, parlava come un disco rotto. Io gli ricordavo come stavamo bene tutti insieme, ma lui rispondeva che adesso la sua vita era Allah e che il suo dovere era aiutare il popolo siriano”.

Come siete venuti a conoscenza della sua morte?
“Un giorno mio marito ha ricevuto una telefonata. Era un siriano che gli ha chiesto se era il padre di Abu Turab, il suo nuovo nome siriano. Mio marito gli ha risposto che era il padre di Sabri. Il siriano, allora, gli ha detto “complimenti, vostro figlio è appena morto da martire”, e ha messo giù. Non sappiamo come è morto, dove è morto, quando è morto. Non sappiamo niente”.

Prima che Sabri partisse, non vi siete mai accorti di nulla? Non avete cercato di impedire che prendesse questa strada?
“Sabri ha abbracciato l’Islam radicale in soli tre mesi. All’improvviso non voleva più studiare né lavorare, diceva che studiando o lavorando non poteva pregare all’ora giusta e che non voleva essere in contatto con delle donne. Diceva che la democrazia era da vietare e che bisognava fare la sharia. A casa nostra non abbiamo mai insegnato queste cose, aveva tagliato i ponti con tutti i suoi amici di prima, diceva che non erano bravi musulmani, e che aveva trovato dei nuovi amici, i suoi “fratelli””.

Quindi suo figlio non è mai stato un estremista?
“Mio figlio non è mai stato religioso, non sapeva nemmeno come pregare, non parlava l’arabo. Sabri si è tuffato nell’Islam radicale quando ha sentito che qui in Belgio non c’era più spazio per lui anche a causa di una certa discriminazione, del clima geopolitico nel mondo, della stigmatizzazione nei confronti delle persone di origine araba e di fede musulmana, del razzismo. Sabri giocava basket, aveva tanti amici, il suo cantante preferito era Bob Marley, usciva la sera, voleva diventare manager di un hotel, era un ragazzo positivo. Ma queste persone gli hanno detto che non c’era posto per lui in Belgio, che solo la religione poteva dargli delle risposte, hanno puntato sulla crisi d’identità di un giovane, perché a 19 anni un ragazzo si deve costruire, ha bisogno di credere in qualcosa, è di questo che Sabri è stato privato”.

Tutto è nato dal razzismo?
“Il problema è il malessere all’interno della nostra società, questa sensazione di non essere accettati in Europa, un terreno molto fertile per i reclutatori, la religione arriva solo dopo. È questo ritorno alle origine ad essere pericoloso, perché è lì che entrano in campo dei veri “manovratori” che tolgono ai nostri ragazzi l’identità nazionale, li rendono un prodotto di uno Stato utopico, del califfato. Noi genitori abbiamo certamente delle responsabilità, ma ne ha anche la società sempre più individualista, il governo che ha lasciato che questi ragazzi, molti minorenni, partano da soli e la politica che non fa niente per migliorare il nostro sistema di istruzione“.

Ma perché unirsi allo Stato islamico?
“Noi non diamo ai nostri giovani speranze per il futuro, ed è proprio questo che favorisce la propaganda dell’Isis che invece dice “qui abbiamo lavoro per voi, donne per voi, spazio per voi, qui siete i benvenuti, non importa il colore della vostra pelle, noi vi accettiamo”. Ecco che la nostra società deve proporre ai nostri figli un progetto di vita, c’è bisogno di una comunicazione positiva”.

Qual è lo scopo di SAVE Belgium, l’associazione che ha fondato?
“Con SAVE Belgium – Society against violent extremism – diamo un supporto alle famiglie con un figlio partito o morto in Siria e aiutiamo i genitori che temono casi di radicalizzazione. Poi andiamo nelle scuole e cerchiamo un dialogo con i giovani per prevenire questi fenomeni. Ad oggi fanno parte dell’associazione quindici famiglie e tante madri che vogliono prevenire simili tragedie”.

@AlessioPisano

 

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