Solidarizzare implica la capacità di trasporre la nostra esistenza con quella di chi è meno fortunato di noi. Ci sono momenti della storia in cui manifestiamo una sorprendente incapacità nel farlo e guardiamo con sospetto, colpevolizzando, quanti oggi ripetono gesti e azioni che anni fa ci appartenevano e nei quali i nostri padri si sarebbero facilmente riconosciuti.

Il fenomeno migratorio è la cartina di tornasole di questo nostro limite e quando ci imbattiamo con quanti lasciano la loro terra per motivi sociali, economici o bellici, facciamo fatica a rileggere le pagine del nostro passato e a ridare vita alla sofferenza dei nostri nonni che, come “migranti al contrario”, avevano percorso la medesima rotta.

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Negli anni Ottanta, in Italia, i “diversi” erano soprattutto maghrebini e slavi, dieci anni dopo fu la volta degli albanesi, nel 2000 toccò ai rumeni, oggi è la volta dei richiedenti asilo siriani o dell’Africa sub sahariana. L’alternanza delle differenti etnie si scontra con un continuum rappresentato da quelli che noi chiamiamo “zingari”, i “diversi” per eccellenza, che, nel caleidoscopio dei flussi migratori, hanno sempre mantenuto ben saldo il primo posto nella nostra scala del rifiuto e del disprezzo.

Sono poco più di 5 milioni i cittadini stranieri residenti nel nostro Paese (8,3% della popolazione totale), numeri assolutamente ridicoli se paragonati a quelli degli italiani emigrati nel mondo che tra il 1876 e il 1976 furono almeno 24 milioni (equivalente all’ammontare della popolazione presente al momento dell’Unità d’Italia): italiani del Sud ma anche veneti, piemontesi e friulani partirono in treno o in nave alla ricerca di un futuro migliore.

Gli storici definiscono due periodi: la Grande Emigrazione, compresa tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta e la Emigrazione Europea che ha avuto inizio a partire dalla Seconda Guerra Mondiale.

Pochi sanno che negli anni Quaranta molti nostri concittadini emigrarono anche verso l’Europa Orientale alla ricerca di fortuna. Visti con sospetto e ritenuti ospiti non graditi, cercavano lavoro nelle miniere e nelle fabbriche di Bucarest e lì ci restavano come clandestini anche alla scadenza dei permessi lavorativi. Gli italiani creavano numerosi problemi, dimostrandosi poco rispettosi delle regole e privi di disciplina. Un rapporto governativo di quegli anni ricorda: «La delegazione in Bucarest segnala che alcuni connazionali, giunti in Romania a titolo temporaneo, non lasciano il Paese alla scadenza del loro permesso di soggiorno provocando inconvenienti con le autorità di polizia romene anche per il contegno non sempre esemplare da loro tenuto e per l’attività non completamente chiara dai predetti svolta». Denunce e lamentele riferite agli emigrati italiani che ricordano la lettera scritta nel 1893 dal console italiane a Bombay che informava che il termine “italiano” fosse riferito a quanti sfruttavano il diffuso fenomeno della prostituzione.

Nel 1955 lo Stato italiano sottoscrisse un accordo con la Germania che ebbe come conseguenza la migrazione di 3 milioni di italiani in terra tedesca. Chi dal Meridione italiano non aveva le risorse per affrontare un viaggio così lontano si limitava a raggiungere la Capitale dove, accampandosi nella estrema periferia, andava ad ingrandire le baraccopoli aggrappate ai margini delle borgate.

Nel frequentarle il sociologo Ferrarotti annotava le impressioni che i romani nutrivano nei confronti delle famiglie abruzzesi, siciliane e pugliesi che avevano costruito le loro misere baracche a ridosso dell’Acquedotto Felice: «Le baraccopoli sono un covo di ladri e delinquenti»; «Sono gente piena di soldi, che vive nelle baracche perché gli fa comodo, gente che ha fatto i soldi con la truffa»; «Sfaticati, non hanno voglia di lavorare, di fare niente».

E così, negli stessi anni, nelle borgate romane, accanto alle abitazioni dove da decenni vivevano immigrati ciociari, pugliesi o abruzzesi, le prime famiglie rom provenienti dal disfacimento della Repubblica jugoslava e comunità marocchine di recente immigrazione realizzarono le loro precarie baracche.

Migranti di ieri e quelli di oggi, abitanti di baraccopoli che, come ferite lacerano tuttora il tessuto urbano. Nell’ultimo secolo noi italiani siamo stati i primi; gli “zingari” son venuti dopo, insieme ad albanesi, slavi e rumeni. Tutti vittime di uno stesso sistema che emargina, esclude, discrimina, punta il dito. E lo fa dimenticando quando gli “zingari” eravamo noi, un’umanità nomade a caccia di speranza.

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