Sventura volle che in quello sfortunato 28 dicembre 2015, quando nella Capitale potevano circolare esclusivamente le vetture con targhe pari, lo sventurato disponesse di un’automobile con targa dispari. Era questa solo la prima delle sue sventure. La seconda era infatti quella d’essere residente a Roma, a ben 7,4 km dal proprio luogo di lavoro (apprendeva da Google Maps).

La città, come ben sanno le cronache locali, da anni ha deciso che il sistema di trasporto pubblico è da considerarsi una sorta di optional per i cittadini. Da oltre un lustro, ad esempio, gli investimenti più consistenti riguardano una fantomatica metropolitana (denominata “Linea C”) che nelle intenzioni avrebbe dovuto collegare la cittadina di Pantano a San Pietro e nella pratica arriva in mezzo a via La Spezia, a un km a piedi dalla fermata della Linea A di San Giovanni.

Sfortuna volle che lo sventurato avesse comprato casa proprio nei pressi di questo potente vettore del futuro.

Fatto sta che alle 10,35 il nostro recavasi alla stazione Malatesta convinto dal bel grafico che legge sul Corriere della Sera: biglietto giornaliero a 1,50 euro e promessa di Atac di “aumentare le corse”. Per chi non fosse pratico della città, Piazza Malatesta si trova a una sola fermata di distanza dal “capolinea” di via La Spezia: “Malatesta”, “Pigneto”, infine “Lodi” (leggasi via La Spezia). Giunto nel sottosuolo il cittadino apprendeva che il primo treno della suddetta “metropolitana” sarebbe andato in direzione “Lodi” dopo appena “22 minuti”. Nel cunicolo del sottosuolo, ovviamente, non c’è wi-fi né alcun segnale per il cellulare. Il gioco che si può fare è però quello “da dove verrà il treno?”. Il cittadino ha a disposizione due binari tra cui scegliere. Se va verso su va a Lodi, se va verso giù va al quartiere Alessandrino, o in certi casi, a Pantano. Così i viaggiatori presidiano i corridoi di modo da marcare entrambi i binari.

Alla fine il treno arriva. Ed ecco la bellissima via La Spezia dove una quarantina di accoliti attendono un autobus che li trasporti a un chilometro da lì. In verità un autobus c’è. Ma, in onore alla città ferma per lo smog, è spento e chiuso. Si va a piedi.

Ed eccolo il nostro, una dozzina di minuti dopo, a provare ad infilare il biglietto da un euro e cinquanta già obliterato, nella macchinetta della metro A. Quella lo ingoia per qualche secondo, poi lo sputa. E non apre. Prova una seconda volta in un’altra macchina: nulla. Poi nota un signore con pettorina Atac che ha appena aperto il varco destinato ai disabili e ha l’espressione di un babbo natale da centro commerciale al settantesimo bimbo sulle ginocchia. Butta un occhio di disgusto al biglietto e lascia passare.

Altri minuti in banchina ed ecco arrivare l’ultimo treno verso il luogo di lavoro. Un’altra manciata di fermate ed eccoci: sono le 11,45. Un’ora e una decina di minuti per fare sette km e mezzo. A piedi, avvisa Google Maps, ci si metteva un’ora e trentuno. Poi dice che uno inquina…

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