Nel 1884 la Conferenza di Berlino regalò il Congo al re del Belgio Leopoldo II e decretò la spartizione dell’Africa tra le potenze europee. Alla Germania, tra l’altro, spettò il Ruanda. Nel 1893 il conte von Götzen, primo tedesco a giungere in Ruanda, convinse il Mwami Kigeli IV Rabugiri a sottomettersi, in cambio di fucili per difendere il suo regno dalle scorrerie arabe.

La popolazione del Ruanda, strutturata in clan, si suddivideva in tre classi: i Tutsi, allevatori, nobili e guerrieri (14% della popolazione); gli Hutu (agricoltori, 85%) ed i Twa (vasai e giullari di corte, 1%). I matrimoni misti erano frequenti e gli Hutu, acquisendo bestiame, potevano ascendere socialmente. Hutu e Tutsi condividevano una sola lingua, il kinyarwanda, e un Dio unico, Imana, che proteggeva i suoi figli dando la caccia ad una belva feroce chiamata Morte. Quando cacciava, tutti si dovevano nascondere perché Morte non trovasse preda né rifugio. Ma un giorno una vecchia andò a raccogliere verdure: Morte si insinuò sotto la sua gonna e la donna morì. Tre giorni dopo, sua nuora, che la odiava, vide che sulla tomba erano apparse delle crepe come se la morta stesse cercando di tornare alla vita. Allora picchiò la terra con un grosso pestello, gridando: “Rimani morta!”. Fu la fine della possibilità che Imana aveva dato all’uomo di sfuggire alla morte.

La sconfitta nel primo conflitto mondiale ed il Trattato di Versailles segnano la fine dell’impero coloniale tedesco. La Società delle Nazioni affida il mandato sul Ruanda-Urundi al Belgio, che nel 1908 aveva già ereditato il Congo dal suo Re, dopo 24 anni di sfruttamento personale ed atrocità in cui erano periti almeno cinque milioni di congolesi. Anche in Ruanda-Urundi i belgi prenderanno decisioni foriere di gravi conseguenze, come quella, nel 1933, di istituire carte d’identità etniche e così negare agli Hutu ogni possibilità di ascensione sociale, dopo avere imposto loro il lavoro forzato e riservato ai Tutsi l’accesso all’educazione (affidata alla Chiesa) e all’amministrazione.

Dal 1868 intanto, l’arcivescovo di Algeri, Monsignor Lavigerie, aveva creato i Missionari d’Africa, meglio noti come Pères blancs, i quali, ai giuramenti di castità, povertà ed obbedienza, aggiungevano quello dell’evangelizzazione dell’Africa. Nel 1900 essi fondano le prime missioni in Ruanda. Nel 1922 è eretto il vicariato apostolico. Nel 1946 Charles Mutara III Rudahigwa, primo Mwami a convertirsi al cristianesimo, dedica il regno al Cristo Re, anche se le credenze tradizionali non scompaiono completamente e Dio in Ruanda continuerà saldamente a chiamarsi Imana.

Il cristianesimo (soprattutto il cattolicesimo) è abbracciato dal 95% della popolazione e trionfa anche dopo l’indipendenza nel 1962, prima sotto il Presidente Kayibanda (un ex seminarista), ed in seguito sotto Juvenal Habyarimana. Nel settembre 1990 Giovanni Paolo II effettua una visita apostolica in Ruanda. Ma un mese dopo l’esercito dei Tutsi del Fronte Patriottico Ruandese attraversa il confine ugando-ruandese. E’ l’inizio della guerra civile e del crescendo di follia che il 7 aprile 1994 sfocerà nel genocidio.

Come ogni altra struttura sociale a quel tempo, le differenti confessioni furono confrontate al genocidio. Tra esse era presente anche un’esigua minoranza musulmana: nel libro Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie (il cui titolo è tratto da una lettera che un gruppo di pastori protestanti Tutsi scrisse ai propri superiori Hutu durante il genocidio) Philippe Gourevitch afferma che essa “apparentemente (…) non era stata attiva nel genocidio, avendo anche cercato di salvare dei Tutsi”. Nel 1995, anche il Presidente Bizimungu lodò pubblicamente il comportamento della comunità musulmana in un contesto in cui i membri Hutu delle altre confessioni avevano invece in maggioranza partecipato all’uccisione dei loro correligionari, vicini e persino parenti Tutsi.

Ma cosa hanno fatto concretamente i musulmani durante il genocidio in Ruanda? È vero che il loro comportamento è stato migliore di quello delle altre confessioni? E perché? Risponderemo a queste domande in un prossimo articolo.

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