di Stefania Mangione*

Nato con le finalità di riemersione del lavoro irregolare in ambiti in cui risultava diffuso (e comunque, a committenza familiare e non imprenditoriale) e di inclusione di alcuni soggetti considerati più deboli, il lavoro tramite voucher o lavoro accessorio, è diventato l’ultima frontiera del lavoro precario nell’impresa.

Il lavoro accessorio viene introdotto nel 2003 con la cosiddetta legge Biagi (artt. 70 e ss. del decreto legislativo 276/2003), riformato dalla legge Fornero e nuovamente ritoccato dal decreto legislativo 81/2015 del governo Renzi.

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La legge Biagi lo ammetteva, per la prima volta nel nostro ordinamento, con due limiti, uno oggettivo e uno soggettivo: le prestazioni accessorie erano tipizzate (piccoli lavori domestici e di giardinaggio, insegnamento privato supplementare, babysitting, ecc.) e poteva essere reso da determinate categorie di lavoratori (disoccupati da oltre un anno, studenti, pensionati, disabili, ecc.) a favore di committenti familiari o enti senza scopo di lucro, con esclusione degli imprenditori. Vi era poi un ulteriore requisito rappresentato dall’occasionalità: le prestazioni di lavoro accessorio potevano essere rese per non più di 30 giorni nel corso dell’anno solare e, in ogni caso, entro il limite complessivo di 3 mila euro.

Il vero cambiamento si ha con la riforma Fornero: scompaiono le limitazioni soggettive e oggettive e viene ammessa la possibilità anche per gli imprenditori (e per le pubbliche amministrazioni) di utilizzare i voucher, per tutte le attività lavorative e in tutti i settori produttivi. L’unico limite è quello del compenso che non può superare i 5 mila euro, considerando la totalità di committenti, e i 2 mila euro con riferimento al singolo committente.

Anche il governo Renzi decide di intervenire sull’istituto: la legge delega 183/2014 (ovvero quel progetto di riforma del mondo del lavoro detto Jobs act) prevedeva, tra le molte cose, anche la “ possibilità di estendere..il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi” (art. 1, comma 7, lett. h, l. 183/2014). Quella delega si è poi tradotta negli artt. da 48 a 51 del decreto legislativo 81/2015 (sul riordino delle tipologie contrattuali). L’intervento del governo si colloca nel solco della riforma Fornero, liberalizzando ulteriormente questo strumento: scompare il riferimento alle attività lavorative discontinue e occasionali contenuto nella legge delega; viene innalzato il limite dei compensi che da 5 mila euro passa a 7 mila con riferimento alla totalità dei committenti, mentre rimane fermo il limite di 2 mila euro in favore di ciascun committente imprenditore.

Viene confermata la possibilità anche per la pubblica amministrazione di utilizzare i voucher e introdotto un unico divieto, relativo all’utilizzo di prestazioni di lavoro accessorio nell’esecuzione di appalti, fatte salve non meglio precisate ipotesi che verranno individuate con D.M.

Vi è poi un ultimo aspetto, non secondario. Il valore nominale del buono lavoro è fissato per legge in 10 euro; detratto il compenso del concessionario che vende il buono, i versamenti alla gestione separata dell’Inps e all’Inail, la retribuzione oraria del lavoratore utilizzato coi voucher è di 7,50 euro: per tutti i lavoratori e per tutti i lavori, senza alcuna distinzione rispetto alla qualità del lavoro svolto, come invece espressamente richiede l’art. 36 della Costituzione. Detto in altri termini, oggi, un’ora di lavoro impiegata per togliere le erbacce da un giardino è remunerata quanto quella utilizzata per fare un innesto in un vitigno di Brunello di Montalcino.

I dati sull’utilizzo dei voucher ne mostrano un incremento vertiginoso: sorto alla periferia del mercato del lavoro per consentire la remunerazione dei cosiddetti “lavoretti”, questa modalità di retribuzione si è nei fatti tramutata in una nuova maniera – la più instabile, insicura e aleatoria – di veleggiare nelle acque del mercato del lavoro italiano.

Eppure, gli imprenditori di strumenti ne avevano già sin troppi: lungi dal ridurre le tipologie contrattuali flessibili, il decreto legislativo ha confermato e liberalizzato la quasi totalità dei vecchi istituti introdotti con la riforma che rese il mercato del lavoro italiano “il più flessibile d’Europa” (la legge Biagi), mentre tra il 2012 e il 2015 il supermercato delle tipologie contrattuali è stato suggellato da quest’ultima, appetibile offerta.

Più grave sembra essere il capovolgimento della funzione strategica del lavoro accessorio: se, in principio – pur con tutti i suoi limiti – poteva effettivamente fare emergere alcune attività spesso rese in regime di assoluta irregolarità, la sua odierna configurazione rischia di risolversi nel suo contrario: una copertura o legittimazione ex post del lavoro nero, abusivo e irregolare.

* Sono avvocata giuslavorista a Bologna, per i lavoratori. Ho scritto, assieme ad Alberto Piccinini, un libro in materia di comportamento antisindacale e faccio parte della redazione regionale Emilia – Romagna della rivista RGL news.

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