In questo momento in Burundi, paese vicino al Ruanda da un punto di vista geografico, demografico, socioculturale e storico, e che come il Ruanda ha già conosciuto grandi massacri, sono nuovamente in corso sanguinosi avvenimenti. La violenza politica, in crescendo da mesi, ha raggiunto nuovi picchi la notte dell’11 dicembre, quando si è verificata una serie di attacchi contro due basi militari a Bujumbura, la capitale, e ad una terza base dell’interno. Gli attacchi sono stati respinti e un’ottantina di ribelli uccisi. Da allora è in corso la caccia all’uomo: i corpi di decine di giovani, alcuni dei quali con segni di tortura e con le braccia legate dietro la schiena, sono stati trovati nelle zone di Bujumbura considerate ostili al presidente Pierre Nkurunziza.

Ginevra, sessione  commissione diritti umani discute la situazione Burundi

Figlio di un governatore Hutu perito nel 1972 nella terribile repressione di una sanguinosa rivolta anti-Tutsi promossa da un gruppo di ufficiali Hutu, Nkurunziza ha solo otto anni alla morte del padre. Ne avrà ventinove nel 1993, quando il primo presidente Hutu democraticamente eletto in Burundi, Melchior Ndadaye, è ucciso da un gruppo di militari, provocando il massacro di migliaia di Tutsi da parte di milizie Hutu. Ma di nuovo l’esercito reagisce sterminando un grande numero di Hutu. Circa 200.000 persone delle due etnie sarebbero state uccise nel 1993. Centinaia di migliaia fuggono verso lo Zaire, la Tanzania ed il Ruanda, dove il nuovo presidente Ntaryamira troverà la morte il 6 aprile 1994 nell’abbattimento dell’aereo del presidente ruandese Habyarimana che darà il via al genocidio dei Tutsi ruandesi.

Intanto il Burundi continua sprofondato nella guerra tra Hutu e Tutsi. L’ex ministro burundese Yangoma fugge in Zaire, e lancia la ribellione Hutu del Conseil National pour le développement et la démocratie (Cndd) contro il potere Tutsi di Bujumbura. Nkurunziza si unisce al Cndd nel 1995, anno in cui sarà ferito gravemente ad una gamba riuscendo poi a salvarsi dopo essersi nascosto nelle paludi per quattro mesi. Dopo anni di guerra, nel 2000 è concluso l’accordo di pace di Arusha, che prescrive il riequilibrio etnico di esercito e amministrazione e l’organizzazione di elezioni.

Nkurunziza intanto fa carriera. Dal 2001 alla guida del Cndd, rinominato Cndd-Fdd (Forces de Défense de la Démocratie), nel 2003 attacca Bujumbura provocando la fuga di 40.000 persone ed ottenendo un nuovo accordo che vede l’entrata al governo del Cndd-Fdd.

Nel 2005 Nkurunziza vince le legislative ed è proclamato nuovo presidente del Burundi. Cinque anni dopo si torna al voto. Ma l’opposizione denuncia le frodi nelle elezioni locali precedenti e boicotta il processo. In assenza di rivali, Nkurunziza ottiene il 91%. Utilizzerà il secondo mandato per consolidare il proprio potere. Nell’aprile 2015 annuncia la propria candidatura per un terzo mandato, in violazione della Costituzione. L’opposizione (sia Hutu che Tutsi) promuove dimostrazioni duramente represse dalla polizia. Il 13 maggio il generale Niyombareh tenta un colpo di Stato mentre Nkurunziza è in Tanzania, ma le forze lealiste lo sconfiggono.

Il 21 luglio si svolgono le elezioni presidenziali: Nkurunziza vince con il 70% (ma con un turn-out del 30%). Il paese è in ebollizione e le milizie dei partiti, come gli Imbonerakure del Cndd-Fdd, seminano il terrore. Finora la dimensione etnica del conflitto era rimasta in secondo piano rispetto alle ragioni politiche, ma i media denunciano ora una campagna d’incitamento all’odio etnico. Ed una nuova ondata di rifugiati si aggiunge agli oltre 200.000 che da aprile sono fuggiti in Tanzania e versano oggi in condizioni umanitarie preoccupanti.

Il Consiglio di Sicurezza Onu ha condannato le esecuzioni e violazioni dei diritti umani in Burundi ed ha chiesto al governo di tradurre in giustizia gli autori dei crimini. Ma chi fermerà la carneficina? Visto il disinteresse della comunità internazionale, in ben altre faccende affaccendata, è in corso una mediazione politica, piuttosto che interventi di peace-enforcement.

Il mediatore nominato dalla Comunità dell’Africa Orientale, il presidente ugandese Museveni, non è neppure lui precisamente un volto nuovo: al potere dal 1986, quando rovesciò l’allora presidente Obote, Museveni ha modificato la costituzione ugandese per ottenere un terzo mandato nel 2006 e poi un quarto nel 2011. Quanto a Kagame, mentre un rapporto dell’organizzazione americana Refugees International accusa il Ruanda di reclutare a forza i rifugiati burundesi per promuovere una ribellione in Burundi, proprio questo venerdì 18 dicembre i ruandesi sono chiamati a partecipare ad un referendum per autorizzare un emendamento costituzionale che permetterebbe a Kagame di ripresentarsi nel 2017 e possibilmente rimanere poi al potere fino al 2034.

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