cibo_interna nuova

Per i buongustai come la sottoscritta questo non è sicuramente un periodo facile. Anche se sono passati un paio di mesi dalla bomba scoppiata dopo la diffusione dello studio dell’Organizzazione mondiale della Sanità sul consumo di carne rossa e carni lavorate, ho deciso di scriverne solo ora perché, dopo quella bomba, ne sono scoppiate molte altre e tirando le somme sono ben poche le leccornie che potremo mettere sulle nostre tavole in occasione delle prossime feste natalizie se vogliamo dar retta a tutti gli allarmi e, in certi casi, allarmismi diffusi ultimamente sull’alimentazione. Ma dobbiamo proprio prenderli tutti quanti alla lettera?

Tutto è cominciato, dicevamo, con la ricerca dell’ Organizzazione mondiale della Sanità sul consumo di carne rossa e carni lavorate che potrebbero provocare il cancro al colon-retto, al pancreas e alla prostata. Non so voi, ma io ho letto la notizia sulle prime pagine di tutti i principali quotidiani on line giusto dopo aver gustato con un’amica un bell’hamburger con tanto di fettina di bacon abbrustolita. Qualche istante dopo tutti gli opinionisti di tutte le trasmissioni televisive di approfondimento e di tutti i talk show del pianeta parlavano dell’articolo comparso sulla rivista scientifica “The Lancet Oncology” come se avessero appena conseguito una laurea in Scienze dell’alimentazione ad Harvard ma, per fortuna, qualche ora più tardi, alcuni eminenti oncologi italiani hanno tenuto a precisare che non è il caso di fare allarmismo.

La carne rossa o lavorata può essere consumata una o due volte la settimana, bisogna evitare gli eccessi e, in ogni caso, l’eventuale pericolosità della carne rossa o lavorata che è una sostanza “probabilmente” cancerogena non è nemmeno lontanamente paragonabile alla pericolosità del tabacco che è cancerogeno senza il “probabilmente”. Anche perché per la carne bianca le cose non vanno meglio, basti pensare agli allevamenti intensivi di polli e conigli dove, ancor prima dell’uomo, i primi a pagare le conseguenze del proliferare di infezioni, funghi e sporcizia sono gli animali stessi, in molti casi maltrattati e condannati a morte certa ancor prima di raggiungere l’età in cui devono essere macellati come evidenziato recentemente da un servizio della trasmissione “Servizio Pubblico”. Pur avendo avuto un illustre marito che fumava anche nel sonno, io fortunatamente non fumo ma se vi giurassi che non mangerò più salame in vita mia direi una bugia. Come in tutte le cose la virtù sta nel mezzo e a ferragosto la grigliata di salsicce al peperoncino fra i boschi della Basilicata non me la toglierà nessuno.

Manco a dirlo, dopo l’hamburger con la mia amica avevo preso anche un caffè e la notizia sulla bevanda più amata dagli italiani che è finita “sotto investigazione” da parte dell’Iarc, l’agenzia dell’Organizzazione mondiale della sanità preposta alla ricerca sul cancro, non è tardata ad arrivare. Per farla breve, ci faranno sapere tra qualche mese se rischiamo la vita pure quando facciamo la pausa caffè.
Quando la psicosi da barbecue sembrava essersi leggermente assopita, un altro fulmine a ciel sereno è arrivato dagli Stati Uniti: il biologo Jonathan Slaght ha affermato sul New York Times che il pesto danneggia l’ambiente perché l’uso di grandi quantità di pinoli sta provocando la deforestazione di numerosi boschi di pini. Addirittura, a detta del dottor Slaght sarebbe colpa della squisita salsa ligure se gli orsi che non trovano più pinoli stanno vagando affamati per le strade della cittadina russa di Luchengorsk. Quindi da oggi bisognerà fare il pesto con le noci, i pistacchi o gli anacardi. Ovviamente per Slow Food, per i ristoratori italiani, per i cultori del pesto fra i quali pare ci siano anche Papa Francesco e Vladimir Putin e per tutti noi comuni mortali
non se ne parla nemmeno, il sapore cambierebbe completamente.
Il colpo di grazia lo ha dato poi il Parlamento di Strasburgo che ha allegramente stabilito che insetti, vermi, larve, scorpioni e ragni potranno finire sulle tavole degli europei se avranno il via libera della agenzia europea sulla sicurezza alimentare. Ma non è finita qui. Alcuni scienziati dell’ Università del Michigan (di nuovo gli americani, che siano invidiosi di quello che si mangia nel Bel Paese?) hanno pubblicato uno studio secondo il quale il formaggio creerebbe dipendenza come la droga perché la caseina che viene scissa durante la digestione rilascia una serie di oppiacei, le casomorfine. Beh, che dire a questi cervelloni del Michigan? Il paragone con gli stupefacenti mi pare un po’ azzardato.
In ogni caso sono sicura che saremmo tutti molto più tranquilli se nelle discoteche che frequentano i nostri ragazzi pullulassero pusher che spacciano tartine al gorgonzola.
In definitiva resterebbe ben poco di cui cibarsi se pensiamo che l‘olio extravergine di oliva non sempre è extravergine, il vino può essere adulterato con zuccheri e acidi, le mozzarelle possono contenere diossina e il pesce mercurio. L’unico lusso che possiamo permetterci forse rimane ancor il panettone come recita uno spot pubblicitario in cui un pingue commendatore e i suoi commensali addentano voraci il famoso dolce natalizio incuranti degli ufficiali giudiziari che sulle note di “White Christmas” gli stanno pignorano quadri, tappeti e argenteria nel bel mezzo del pranzo di Natale. Sempre che a qualcuno non venga in mente di diffondere proprio in questi giorni l’altolà ad uvetta e canditi affermando che sono più tossici di alcuni titoli e più pericolosi di certe obbligazioni.
Articolo Precedente

Facebook, non ho l’età

next
Articolo Successivo

Premio ‘Elsa Morante’, Dacia Maraini: ‘Accende una luce per chi non legge’

next