“Guardi in questo Paese c’è solo un personaggio carismatico che lo possa davvero guidare: Silvio Berlusconi”.
“Ne è proprio sicuro, commendatore? Davvero non vede nessun altro?”.
“Beh, uno ci sarebbe: Dell’Utri, ma lui ha il problema del processo di Palermo…”.
“Ma intanto si sa come vanno queste cose: finirà che verrà assolto”.
“No, guardi, gli daranno sette anni…”.

Quel colloquio con Licio Gelli me lo ricordo ancora bene. E sempre quando ripenso alla condanna definitiva a 7 anni poi inflitta a Dell’Utri (ne aveva presi nove in primo grado) mi gela il sangue.

Licio Gelli a Odeon Tv

Ero arrivato a Villa Wanda poco prima delle elezioni del 2009 per il rinnovo dei vertici del Goi (Grande Oriente d’Italia), che avrebbero riconfermato alla guida della massoneria italiana l’avvocato Gustavo Raffi. L’Espresso, il giornale per cui allora lavoravo mi aveva incaricato di preparare un pezzo sui fratelli maledetti che si accingevano, tra mille veleni e manovre di palazzo, ad andare alle urne. E anche se alla fine di quello che Gelli mi disse scrissi poco o nulla – l’articolo sulla massoneria fu prima rinviato e poi cancellato perché Gianni Barbacetto ne aveva pubblicato uno analogo su Il Venerdì di Repubblica – conservo ancora gli appunti e una registrazione parziale del nostro incontro.

Vivida è pure l’impressione che il Venerabile e pluri-condannato maestro mi fece. Lui stava per compiere novant’anni, ma ne dimostrava almeno 15 di meno. La sua villa sui colli d’Arezzo era ancora frequentatissima: prima di incontrarlo attesi parecchio e dopo di me arrivarono altre persone. Forse anche per questo l’uomo sembrava al corrente nei minimi particolari di ogni avvenimento politico e sociale. La sorpresa (e per certi versi la paura) mi colse però quando cercai di capire che cosa fosse per lui la massoneria. “La massoneria è ordine e gerarchia”, disse tutto di un fiato Gelli prima di lanciarsi non in un semplice elogio della destra, come mi sarei aspettato, ma del fascismo.

La sala lunga e stretta dove venni ricevuto assieme al mio accompagnatore – un massone toscano iscritto al Pd, presentatomi da un collega – era piena zeppa di immagini sacre, madonne, cristi in croce, che mi fecero dubitare sulla veridicità della scomunica mossa dalla Chiesa nei confronti dei figli della vedova.

Gelli pareva saper tutto del Vaticano e di quello che accadeva nelle forze dell’ordine. E anche se ebbi la sensazione che volesse impressionarmi condendo i suoi discorsi con decine di nomi accanto ai quali puntualmente citava gli indirizzi delle abitazioni e persone e persino il piano degli edifici dove esse abitavano, alla fine mi convinsi che era ancora molto potente. Del resto stiamo parlando di un uomo scarcerato negli anni 80 perché considerato dai tribunali malato di cuore, in attesa di interventi urgenti alle coronarie, e che invece nei 30 anni successivi ha goduto di un’ottima salute.

Ovviamente discutemmo molto di Berlusconi – mi sono ripromesso di pubblicare prima o poi il tutto in un libro galleria di ritratti – e fu allora, come ho già scritto sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, che lui affermò sorridente: “Lo conosco bene, l’ho avuto sette anni in loggia” prima di rivendicare per l’ennesima volta il copyright sul famigerato Piano di Rinascita Democratica che per Gelli il Cavaliere stava tentando con successo di attuare.

Terminato l’incontro mi resi conto che qualcosa però non tornava. Berlusconi, stando alle dichiarazioni e i documenti ufficiali, si iscrisse alla P2 nel 1978. Ma Gelli con me retrodatava di fatto il suo ingresso al 1974: l’anno in cui nascono la Fininvest Ltd Grand Cayman (una strana off shore finanziata dal comparto estero del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi), Telemilano via cavo e in cui anche il boss Vittorio Mangano arriva, poco dopo Dell’Utri, a Villa San Martino ad Arcore. Per questo le sue parole mi sembrarono allora un messaggio calcolato. Una sorta di: “Caro premier (in quel momento Berlusconi era al governo), ricordati che io so e ho le prove”. Una specie di una dimostrazione di forza basata sulla raccolta di informazioni.

Perché in fondo a rileggere la storia della Loggia il potere di Gelli è stato sempre quello della memoria. Grazie ai vertici dei servizi segreti, delle forze dell’ordine, dei maggiori istituti di credito e di buona parte della politica affiliati alla sua organizzazione, il capo della P2 archiviava documenti e notizie. Collezionava dossier la cui esistenza era da sola capace di riportare all’ordine i recalcitranti. Il resto lo facevano i soldi (Gelli come il suo vice Ortolani era diventato grazie all’Ambrosiano, e non solo, un uomo ricchissimo), le relazioni e la sua fama sinistra. Un’aura torbida che nel corso degli anni il Burattinaio ha provveduto personalmente ad alimentare. Anche con tecniche di persuasione inconscia.

Me ne resi conto al momento dei saluti. Gelli abbracciò l’uomo che mi aveva portato da lui (e che non vedeva da 30 anni) e gli chiese dove abitava. Poi ripeté ad alta voce l’indirizzo. Sembrava volerlo memorizzare per poi usarlo in qualche altra conversazione. Dando così l’impressione agli interlocutori di frequentare abitualmente chi, magari, non vedeva da una vita. Un magliaro insomma. Ma potente e, in un Paese di magliari come il nostro, molto pericoloso.

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