matrimonio indiano 640

Che cosa bisogna fare della mia vita che ha smarrito la propria idea? Se il problema è che ogni essere deve creare la sua divinità, lungi da me sapere che cosa fare o essere. Non ho nemmeno una buona teoria sul vegetarianismo. Per quanto riguarda l’amore e il sesso, non so cosa dire, Peter dorme sdraiato su un fianco nel letto accanto, ancora fedele nonostante io debba essere una misera compagnia per un’antica bellezza. E mentre sto coricato di schiena al buio, il mondo continua a girare come prima. I miei averi, almeno, si riducono a Peter e a uno zaino. Sono ancora oberato dal Karma di molte lettere e corrispondenza incompiuta. Avrei voluto essere un santo.

È stato ripubblicato da il Saggiatore, in una nuova traduzione di Monica Martignoni e Leopoldo Carra (che è anche il curatore del volume), uno dei libri, a mio avviso, più riusciti e completi di Allen Ginsberg: Diario Indiano 1962-1963. Una raccolta dura, visionaria, a tratti cinica, ma pervasa di una particolare e affascinante umanità.

Nel febbraio del 1962 Ginsberg, insieme al poeta, e suo compagno, Peter Orlovsky, giunge a Bombay, da dove ha inizio un viaggio nei meandri del subcontinente, un viaggio che lo metterà in contatto con mendicanti, lebbrosi, artisti, facchini e con l’antica spiritualità di quei luoghi. L’autore si immerge in una lunga e continua scoperta, frequenta le fumerie di oppio, osserva i cadaveri bruciare sulle pire sulle rive del Gange, visita i siti storici di Gautama Buddha, parla con le persone che incontra e scrive, scrive pagine memorabili, a volte utilizzando il suo inconfondibile stile sincopato e musicale, a volte lasciando spazio alla prosa più tradizionale.

Diario Indiano però, va oltre a quello che potrebbe essere interpretato come un reportage di viaggio in stile ginsberghiano. Numerose sono le pagine che si sviluppano intorno alla situazione politica internazionale, ironiche dissertazioni sull’America kennediana, la Cina atomica di Mao, i contrasti della Guerra Fredda, lo scontro tra Hutu e Tutsi del Ruanda, il caos del Congo indipendente.

Ci sono poi le poesie, riuscite, dedicate a William Carlos Williams e a William Blake, gli schizzi disegnati da Ginsberg in nottate allucinogene in cerca della vibrazione cosmica e le fotografie, incisive, durissime, un vero pugno nello stomaco, che ritraggono lebbrosi, storpi, mendicanti, mani e piedi mozzati, mercati, scimmie, baba visionari. Un libro totale, nel suo tentativo di cercare il significato della morte, nel riprodurre colori, nell’analizzare una cultura millenaria così distante da quella del poeta statunitense.

Articolo Precedente

‘L’attimo fuggente’, le nostre giovani grandi menti

next
Articolo Successivo

Mario Dondero, morto il fotografo che ha scattato una lunga istantanea del ‘900

next