“Siamo in guerra”, annuncia il segretario alla difesa Usa Ashton Carter davanti alla Commissione Forze Armate del Senato. Carter chiede agli alleati un maggior coinvolgimento nella lotta contro l’Isis. “Ho chiesto personalmente a quaranta ministri della difesa di agire con più forza”, spiega, aggiungendo che “i confini della Turchia sono troppo porosi” e che Arabia Saudita e Paesi del Golfo devono “fare di più nei raid aerei”. Ma la sua audizione al Senato, insieme a quella di alcuni generali, evidenza soprattutto due cose: da un lato il fallimento dell’azione militare dispiegata sin qui dagli Stati Uniti contro l’Isis; dall’altro, l’escalation militare cui Washington sta pensando, probabilmente anche sull’onda della prossima campagna elettorale per le presidenziali.

Poco prima degli attacchi di Parigi, Barack Obama aveva detto che l’Isis era stato bloccato. Ecco le parole precise di Obama, durante un’intervista a ABC News: “Non penso che i militanti stiano conquistando terreno. Sin dall’inizio, la nostra campagna militare è stata diretta a contenere l’Isis, e li abbiamo contenuti. Non hanno guadagnato terreno in Iraq. E in Siria, i militanti entrano, poi escono, ma non si assiste a una marcia sistematica dell’Isis attraverso il territorio siriano”.

Poi erano arrivati gli attacchi del 13 novembre, e il presidente era stato criticato da destra e da sinistra, tanto che il portavoce della Casa Bianca Ben Rhodes era dovuto intervenire per precisare il ragionamento di Obama. “Il presidente si riferisce specificamente all’espansione geografica in Iraq e Siria”, aveva detto Rhodes, negando quindi che da parte della Casa Bianca ci fosse una sottovalutazione del fenomeno. Gli avversari di Obama avevano avuto però buon gioco a reiterare l’accusa di scarsa efficacia dell’azione sin qui intrapresa dall’amministrazione. Un’accusa che la strage di San Bernardino, a opera di una coppia di giovani musulmani “radicalizzati”, ha rilanciato, costringendo quindi Obama a tornare in televisione, il 7 dicembre, per chiedere “freddezza e fiducia”.

Al fondo delle divisioni sta, anzitutto, una frattura profonda, culturale, tra Obama e i suoi avversari. I repubblicani, sin dai tempi dell’11 settembre e della “war on terror” scatenata da George W. Bush, vedono il confronto con l’Isis in termini di un “conflitto di civiltà”. Proprio all’indomani dell’11 settembre, Bush definì al-Qaeda “erede di tutte le ideologie assassine del ventesimo secolo… essi seguono le orme del fascismo, del nazismo, dei totalitarismi”. Dopo gli attacchi di Parigi, Marco Rubio, senatore repubblicano e attuale candidato alla presidenza, ha ripreso quei concetti, parlando dell’assalto dei militanti islamici “ai fondamenti stessi della nostra società, dell’America”.

Per Barack Obama, la questione è diversa. Obama considera il jihadismo violento non una ragione di “scontro di civiltà”, ma un problema all’interno di una civiltà, quella dell’Islam. Di qui i continui appelli a non considerare “l’America in guerra contro l’Islam” e le precisazioni sul fatto che l’Isis è sì “un cancro”, qualcosa di violento e preoccupante, ma comunque un fenomeno che è possibile tenere sotto controllo. Non a caso Obama ha spesso parlato di “contenimento” dei militanti islamici, e ha visto progressi nella lotta allo Stato Islamico dove i suoi avversari hanno invece contemplato ritardi e fallimenti.

Nelle ultime settimane la situazione, interna e internazionale, è però cambiata. Ci sono stati gli eventi di Parigi e di San Bernardino. Ci sono stati alcuni sondaggi, che mostrano come la maggioranza degli americani non sia soddisfatta di come l’amministrazione ha sinora gestito l’allarme terrorismo. Un sondaggio CNN/ORC del 7 dicembre rivela che il 53% degli americani pensa sia giusto inviare truppe di terra in Siria e in Iraq; 6 americani su 10 disapprovano la gestione dell’amministrazione in tema di terrorismo e il 68% degli intervistati ritiene che la risposta ai gruppi terroristici non sia stata abbastanza decisa.

Quella che c’è stata, nelle ultime settimane, è però soprattutto una cosa. E cioè, la presa d’atto dello stallo delle operazioni militari. “Non abbiamo contenuto l’Isis”, ha ammesso, sempre di fronte a una commissione del Congresso americano, il generale Joseph Dunford, contraddicendo quindi esplicitamente quanto detto dal suo commander-in-chief Barack Obama. E davanti alla Commissione Forze Armate del Senato, incalzato dalle domande sempre più nervose di John McCain, Lindsay Graham e di altri “falchi” repubblicani, Ashton Carter ha dovuto ammettere di “non sapere” quando Raqqa e Mosul, le due città nelle mani dell’Isis, verranno riconquistate.

Ecco dunque che la strategia militare americana cambia. Il cambiamento è già stato evidenziato dallo stesso Carter il 2 dicembre, sempre in un’audizione alla Camera. “Faremo ricorso a una expeditionary force”, ha spiegato Carter ai deputati, spiegando che si tratta di truppe speciali Usa che faranno base in Iraq ma avranno la facoltà di intervenire, con missioni e raid militari, oltre che nella ricerca di intelligence, anche sul territorio siriano. “Si tratta di un potenziale importante – ha detto Carter – perché si avvale di quello in cui siamo più bravi. Siamo bravi quanto a intelligence. Siamo bravi a muoverci. Siamo bravi a agire sulla sorpresa”.

E’ stata la prima ammissione ufficiale, da parte americana, della possibilità di intervento di truppe di terra Usa in Iraq e Siria (anche se da mesi i peshmerga curdi raccontano che le forze americane sono presenti sulle linee del fronte iracheno nella guerra all’Isis). Ora questa strategia si rafforza, con la dichiarazione di Carter che l’America è in guerra con l’Isis, con la richiesta ai Paesi alleati di un maggiore sforzo militare e con l’annuncio che gli Stati Uniti “con ogni probabilità” invieranno elicotteri Apache a sostegno dell’azione delle forze irachene per riprendere Ramadi.

L’escalation militare è dunque avviata, nonostante i dubbi e le resistenze che in questi mesi Obama ha opposto ai repubblicani e alle stesse richieste dei militari Usa. Una ragione per il cambiamento di orientamento del presidente potrebbe del resto esulare da ragione specificamente militari. La campagna presidenziale Usa è ormai iniziata, le primarie sono vicine – il 1 febbraio si vota in Iowa – e i candidati democratici, in particolare Hillary Clinton, non possono essere lasciati soli, e scoperti, di fronte alle accuse dei repubblicani di debolezza nella lotta al terrorismo.

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