Se un merito si può attribuire al tardivo e sciagurato decreto salva-banche varato dal governo Renzi il 22 novembre scorso, è quello di aver svelato – ammesso che ce ne fosse ancora bisogno – l’assoluta irrilevanza dell’Italia nell’ambito dell’Eurozona e la pochezza delle argomentazioni autoassolutorie con cui la politica e la Banca d’Italia cercano ora di scaricare il barile delle responsabilità su Bruxelles. Illuminante da questo punto di vista l’audizione in commissione Finanze di Carmelo Barbagallo, capo della vigilanza di Via Nazionale. E’ una disarmante ammissione di impotenza (e di colpevolezza) su tutta la linea: dalla presunta impossibilità della Vigilanza di intervenire sulle situazioni più gravi, lamentando la cronica assenza di poteri, alla sonora bocciatura europea delle proposte italiane volte a introdurre meccanismi differenti dal “bail-in”, fino ad arrivare all’oggi quando, a frittata fatta, Bankitalia si interroga sull’opportunità di vietare il collocamento degli strumenti più rischiosi alla clientela retail. Oggi appunto, a fronte della rabbia montante di migliaia di correntisti truffati e di un’assai grave crisi di fiducia che rischia di minare alle fondamenta l’intero sistema bancario con dei costi altissimi per tutti.

Il fatto incredibile è che il rischio che ciò accadesse era ben presente e chiaro: “Il bail-in – ha detto Barbagallo in audizione – può acuire – anziché mitigare – i rischi di instabilità sistemica provocati dalla crisi di singole banche. Esso può minare la fiducia, che costituisce l’essenza dell’attività bancaria” trasferendo i costi della crisi “dalla più vasta platea dei contribuenti a una categoria di soggetti non meno meritevoli di tutela – piccoli risparmiatori, pensionati – che in via diretta o indiretta hanno investito in passività delle banche”. Proprio per questo, nell’ambito dei negoziati sulla direttiva per le risoluzioni delle crisi bancarie, la Banca d’Italia aveva proposto “un approccio alternativo al bail-in, in base al quale si sarebbero potute imporre perdite ai creditori solo in presenza di apposite clausole contrattuali di subordinazione” o l’eventuale rinvio dell’applicazione del bail-in al 2018 in modo da consentire la sostituzione delle obbligazioni ordinarie in circolazione con altre emesse successivamente all’entrata in vigore della direttiva.

A frittata fatta Bankitalia si interroga sull’opportunità di limitare la vendita degli strumenti più rischiosi

Ma, come informa Barbagallo, nessuna delle due richieste è stata accolta nella versione finale della direttiva. Di qui la dimostrazione della totale irrilevanza dell’Italia in ambito europeo su un tema tanto delicato e tanto strategico, considerata anche l’enorme diffusione che le obbligazioni bancarie (sia senior sia subordinate) e le azioni delle banche popolari hanno presso il pubblico, soprattutto a causa delle modalità anche fraudolente con cui sono state collocate dalle banche stesse. Modalità sulle quali, peraltro, le autorità di vigilanza hanno colpevolmente chiuso gli occhi per decenni.

Di bail-in si è iniziato a parlare per la prima volta nel 2012-2013 con la crisi bancaria di Cipro (dove per la prima volta è stato utilizzato) e i negoziati sulla direttiva non sono durati poco, ma l’Italia – vuoi per debolezza, vuoi per sottovalutazione o forse per incapacità – non è riuscita a difendere i propri interessi e a tutelare il risparmio delle famiglie. Risparmio minacciato non tanto dalla direttiva di Bruxelles, quanto piuttosto dalla gestione clientelare delle banche stesse che – sommata alla crisi – ha portato ad accumulare crediti in sofferenza per oltre 200 miliardi. Ora, stretto dalla morsa del bail-in, il governo non sa più come uscirne e ribalta le colpe su Bruxelles, cercando di tamponare la perdita di consensi nei territori annunciando provvedimenti a parziale ristoro delle perdite subite dai detentori di obbligazioni subordinate emesse da Banca delle Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti.

Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha parlato di “aiuti umanitari” e di sostegno a chi a causa delle perdite subite si trovi in condizioni di indigenza. Non un risarcimento, dunque, ma un’elemosina. E che la parola risarcimento faccia paura lo dimostra il fatto che nella bozza di subemendamento presentata dal Pd per costituire un Fondo di sostegno agli obbligazionisti  è scritto a chiare lettere che “i benefici derivanti dalle prestazioni del Fondo non sono cumulabili con eventuali altri proventi di carattere risarcitorio o indennitario connesso agli stessi”. Un modo per scoraggiare i risparmiatori truffati dal far causa alle banche e a Consob e Bankitalia per gli omessi controlli. Responsabilità precise in questa situazione però le ha anche la politica, come ha sottolineato Barbagallo in Commissione Finanze: “In più occasioni la Banca d’Italia ha pubblicamente sollecitato interventi normativi che vietassero il collocamento degli strumenti più rischiosi presso i piccoli risparmiatori, limitandolo a operatori specializzati”. Sollecitazione caduta appunto nel vuoto.

La gestione della risoluzione della crisi mette in luce un inquietante aspetto: l’opacità della procedura

Ma il decreto salva-banche e la gestione della risoluzione della crisi da parte della Banca d’Italia mettono in luce anche un altro inquietante aspetto: l’opacità della procedura. La direttiva europea è stata recepita dall’Italia senza includere i necessari aspetti di trasparenza a tutela dei creditori delle banche che si sono visti azzerare il capitale. Non solo: Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi hanno anticipato la liquidità necessaria per far fronte all’intervento del Fondo di Risoluzione con un finanziamento a 18 mesi “a tassi di mercato”, tassi che guarda caso vengono tenuti rigorosamente riservati facendo sorgere il legittimo sospetto che le “primarie banche finanziatrici” guadagneranno un bel po’ di quattrini a rischio zero, visto che oltretutto il finanziamento è garantito in ultima istanza dalla Cassa Depositi e Prestiti (anche in questo caso la garanzia è prestata a non meglio precisate “condizioni di mercato”).

Infine, le eventuali plusvalenze realizzate con la cessione dei crediti in capo alla bad bank verranno destinati a non meglio specificati “compiti istituzionali” in capo al Fondo. Ma la trasparenza non dovrebbe essere d’obbligo, tanto più in una situazione in cui migliaia di risparmiatori incolpevoli ci hanno rimesso il capitale? Come si può dar retta al presidente delle quattro nuove banche-ponte che chiede una relazione “intensa e duratura” con i clienti quando è noto che entro pochi mesi le attività verranno vendute? Servirebbe più serietà e meno ipocrisia: alla vigilanza sono stati attribuiti nuovi e più incisivi poteri rispetto al passato, ma non risulta che ad oggi siano mai stati utilizzati. Quanto al passato, anche recente, i fatti stanno a dimostrare che in determinati casi si è vigilato ben poco (due esempi per tutti sono quelli di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza) e nulla si è fatto per impedire che continuassero determinate pratiche di collocamento di azioni e obbligazioni, né tantomeno per informare i soci dei rilievi fatti in merito alle modalità di fissazione del prezzo delle azioni. Più comodo, certo, provare a scaricare le colpe su Bruxelles.

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