In questi giorni Simona Molinari ha aperto casa sua, e l’ha aperta per presentare Casa mia, il suo nuovo album. Filologicamente non fa una piega. Ma la faccenda merita attenzione per ben altri motivi. Casa mia. Un album che, lo dico subito, è una sorta di prodigio. E lo è per più di un motivo. Innanzitutto, e non potrebbe che essere così, per la qualità, e di questo si parlerà a breve. In secondo luogo per il solo fatto di esistere. In terzo luogo, per il triplo salto mortale che questo album compie nella sua essenza.

Andiamo in ordine.

Simona Molinari si è presentata al grande pubblico in quello che, salvo miracoli, verrà ricordato come l’ultimo Sanremo Giovani di un certo rilievo. Eravamo nel 2009, presentava Bonolis. Da quel Sanremo uscirà vincitrice Arisa, seguita da Malika Ayane e, appunto, da Simona Molinari. Mentre le prime due, nel corso degli anni a venire, si sarebbero perse in continui cambi di strada, confuse per l’assenza di una vera e propria personalità, Simona Molinari è sempre rimasta fedele a se stessa, forte di una partenza precisa, ben delineata, sua.

Già nel 2009, infatti, si presentava per quel che era, una raffinata cantautrice in odor di jazz. Odor di jazz che, subito dopo, è diventato molto di più, praticamente un’aura. Perché da subito si è intuito come Simona era uno strano mix tra pop e jazz. Strano per l’Italia, ovviamente, e strano per l’Italia d’oggi. La velocizzazione della vita contemporanea, infatti, e mentre lo dico sto applicando in maniera becera la teoria che vado spiegando, ha fatto sì che tutto dovesse essere facilmente decodificabile. Bianco, nero, alto, basso. Pop, jazz. Sì. Tutto diviso. Tutto separato. Tutto nei canoni. Così chi ascolta, distrattamente, su uno smartphone, davanti alla tv o in macchina, non fatica a capire di che si tratta. Canoni, appunto. Ma lei, la Molinari, studi jazz alle spalle, ha deciso che le carte si potevano mescolare, anche da noi.

Nel senso, se all’estero, e di conseguenza da noi, è plausibile che una popstar assoluta come Lady Gaga duetti con Tony Bennett, perché mai una cantante pop non può cantare il jazz? O meglio, perché una cantante jazz non può cantare il pop? E questo, negli anni, Simona Molinari ha fatto. Mescolando le carte, ulteriormente. Portando a spasso per l’Italia una musica che è l’uno e l’altro. Mettendo elettronica sull’acustica e acustica sull’elettronica. Facendo scivolare un’attitudine jazz dentro la scatola preconfezionata del pop, leggera e a volte rigida, e facendo poi entrare un’attitudine pop, dissacrante nell’affrontate i canoni accademici e quasi sacri del jazz. Giocando, questo fanno le popstar, con l’immagine. Diventando un personaggio di successo, una che va a Sanremo con naturalezza, ma facendolo con una musica, swing nel caso del suo ultimo passaggio festivaliero, che non è esattamente l’ultimo grido, in Italia.

Quattro album in quattro anni. E tanti, tanti concerti,. Gli ultimi mesi passati a portare in giro un tour omaggio a colei per cui è diventata una cantante, Ella Fitzgerald. Un omaggio al jazz, chiaramente, ma fatto con leggerezza, senza farsi fregare dalle gabbie e dai codici. Di qui l’idea, dopo quattro album, di confrontarsi con gli standard del jazz, quelli su cui si è formata, quelli che hanno fatto da base per la sua ascesa. Una sfida, certo, ci dice, perché poi fare i conti col proprio repertorio prende un altro sapore, ma un modo per rifare propri dei brani che già propri erano, senza star lì a fossilizzarsi se il canto non è esattamente dentro i canoni, se i puristi di entrambi i generi avranno qualcosa da ridire, un omaggio è un omaggio. Un omaggio in cui sono entrati classici di ritmi diversi, ci fa notare, perché la musica non è solo melodia, ma anche armonia e ritmo. Senza uno di questi tre elementi si perde qualcosa di importante, di fondamentale. Pazienza se le radio non seguiranno.

Il tutto pensando anche a cosa portare poi in tour, con otto brani del proprio repertorio, due per ogni album di inediti, riarrangiati per l’occasione, così da poter stare in scaletta con gli standard, lei, il suo trio e un quartetto d’archi. Perché nell’album così è stato, a suonare gli standard, dal singolo Smoke Gets in Your Eyes a Quizas Quizas Quizas, passando per la bellissima Bewithced, Dream a Little Dream of Me o Mr. Paganini, il brano che per prima l’ha fatta innamorare del jazz, c’era la Mosca Jazz Band, collaboratori di vecchia data di Simona, ma anche la Roma Sinfonietta, l’orchestra sinfonica del maestro Ennio Morricone. Un grande disco, e lasciatemi usare questo termine, anche perché a casa sua, nell’incontrarla, era proprio un disco in vinile che girava nel piatto, fuori dal tempo, e proprio per questo degno di rimanere nel tempo.

Un prodigio, come si diceva in esergo, perché non solo Simona Molinari ha osato, lei giovane donna, uscire dagli schemi in un mercato appiattito sul basso, portando in scena standard eseguiti con piglio personale, ma perché la sua etichetta discografica, la Warner, ha accettato di farglielo fare, l’ha supportata e la sta seguendo, dimostrando che, a volte, anche chi lavora i dischi lo fa con passione e non solo cercando una scorciatoia per far cassa.

La curiosità, ora, è tutta per i live, per vedere come Simona porterà casa sua nelle nostre città, collaborando di volta in volta con le orchestre sinfoniche delle varie regioni. Un modo per fare musica coi musicisti locali, ci ha detto, per farsi influenzare, per crescere. Casa nostra, così, diventerà per qualche giorno casa sua. La musica, del resto, serve anche a questo, a farci sentire a casa nostra ovunque siamo, basta chiudere gli occhi e aprire le orecchie, funziona.

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